Anche se la questione dell’Intelligenza Artificiale in realtà è vecchia di almeno 70 anni, cioè da molto prima che computer, cellulari, app, siti di informazione e algoritmi fossero a disposizione praticamente di chiunque, non c’è dubbio che nell’ultimo anno, con un trend a rapidissima crescita, dove le tappe salienti ormai si misurano sulla scala dei tempi delle settimane, il tema sia diventato pervasivo.

Giornali, TV, mezzi di informazione, blog: tutti hanno dedicato quotidianamente – anche in questi ultimi giorni – uno spazio a tematiche quali il rischio delle fake news derivanti da un uso improprio di questi strumenti, lo sciopero di attori e comparse cinematografiche, il cui ruolo è stato in parte ridimensionato proprio dall’utilizzo di strumenti di IA, e la prima conferenza stampa di robot umanoidi che rispondono alle domande dei giornalisti, solo per citare alcune delle notizie più recenti.

PAURE MANIFESTE E PAURE LATENTI. Nonostante le grandi potenzialità positive nel campo dell’assistenza sanitaria, della guida assistita dei veicoli o del supporto al lavoro creativo, l’IA suscita infatti non pochi timori, persino in coloro i quali hanno contribuito a creare alcune delle sue applicazioni più recenti. C’è la paura che alcuni di questi strumenti possano essere adoperati, da chi detiene il potere, in modo da esercitare un controllo ancora più stretto sugli individui, o da rendere le armi ancora più precise e letali di quanto già non siano. E poi quella per i livelli occupazionali, nonché il timore, in alcuni casi supportato da quanto già avvenuto in altri ambiti produttivi, che determinate tipologie di lavoro possano essere fortemente ridimensionate dall’uso dell’Intelligenza Artificiale. Eppure, ci sono anche aspetti meno evidenti, che hanno a che fare con la capacità stessa di conoscere e di decidere, o con la creatività: tutte peculiarità che finora sono state appannaggio esclusivo degli umani.

Può una macchina imparare dall’esperienza passata, a tal punto da fornire una risposta efficace anche di fronte a situazioni nuove, imitando in questo il comportamento umano, peculiare perché evolve durante l’esistenza sulla base dell’esperienza vissuta?

LA SCOMMESSA FRA UN NEUROLOGO E UN FILOSOFO. Gli algoritmi di machine learning, adoperati ormai da molti anni in campo scientifico – e non solo –, sono il primo passo verso sistemi non più rigidamente programmati per svolgere un dato compito, ma capaci di adattarsi alle nuove esigenze e alle nuove situazioni. Ma al di là degli strumenti software che man mano stanno divenendo sempre più potenti e alla portata di molti – dalla possibilità di creare testi, generare immagini, video, interi film, alle applicazioni della robotica -, permane la domanda che in realtà già il matematico inglese Alan Turing aveva posto nel 1950: Può una macchina pensare? O, in altri termini: può una macchina raggiungere una coscienza? Può una macchina imparare dall’esperienza passata, a tal punto da fornire una risposta efficace anche di fronte a situazioni nuove, imitando in questo il comportamento umano, peculiare perché man mano evolve durante l’esistenza sulla base dell’esperienza vissuta? Venticinque anni fa, un neurologo aveva scommesso contro un filosofo che entro il 2023 questo sarebbe avvenuto, ma di recente una commissione ha stabilito che – almeno per adesso – non possiamo parlare di coscienza da parte delle macchine. La scommessa è dunque stata vinta dal filosofo, che ha potuto usufruire della vincita di una cassa di ottime bottiglie di Porto.

THE IMITATION GAME. Quanto a Turing, il matematico dal canto suo aveva tentato di fornire una risposta alla questione in modo pragmatico, cioè stabilendo una procedura – il test di Turing, per l’appunto, come è stato chiamato da quel momento in poi – che consenta di stabilire se le risposte fornite da una macchina siano o no distinguibili da quelle fornite da un essere umano. Turing immaginò di svolgere un gioco (The imitation game, o gioco dell’imitazione), al quale prendono parte tre partecipanti: un giudice umano, un secondo soggetto umano e una macchina, dislocati in tre ambienti separati. Il giudice può comunicare con gli altri due partecipanti, ponendo domande e ricevendo risposte. Dopo un tempo prefissato, dovrà stabilire quale dei due partecipanti sia una persona e quale una macchina. Turing previde che, di lì a pochi decenni, l’evoluzione tecnologica avrebbe reso difficile capirlo, benché, come dicevamo, al giorno d’oggi non siamo ancora giunti a tanto.

C’è chi si chiede se il test di Turing sia un criterio sufficiente per stabilire che le macchine abbiano effettivamente una loro intelligenza

UN DIBATTITO SEMPRE PIÙ ATTUALE. Da questo punto di vista, peraltro, sembrerebbe allora che uomo e macchina tendano in futuro a diventare indistinguibili nel partecipare al test. Tuttavia, c’è chi si chiede se questo sia un criterio sufficiente per stabilire che le macchine abbiano una loro intelligenza: una domanda ancora aperta nel dibattito odierno, che è anche alla base di un lavoro del Centro Culturale di Catania, il quale in una prima occasione pubblica, lo scorso mercoledì 12 luglio, ha presentato dei primi risultati riguardanti potenzialità e limiti di alcuni tool di Intelligenza Artificiale, prevedendo di proseguire nei prossimi mesi nell’affrontare a 360° gradi i temi più rilevanti di questa rivoluzione. Con l’argomento, d’altronde, volenti o nolenti dovremo continuare a fare i conti sempre più spesso, arrivando forse ad avere più risposte del previsto in tempi meno lunghi di quanto si possa immaginare.

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