«Capii che quel medico, nello smontarmi pezzo per pezzo, aveva portato alla luce vecchie piaghe cicatrizzate da compensi». È il 1962 quando Goliarda Sapienza viene ricoverata nel reparto di psichiatria del Policlinico di Roma per tentato suicidio. A salvarla dalle sedute di elettroshock è il compagno Citto Maselli, che l’affiderà alle cure dello psicanalista freudiano Ignazio Majore. Quando però la relazione medico-paziente si sposterà sul piano sentimentale, l’unica terapia possibile per l’autrice diventerà la scrittura. Nasce così Il filo di mezzogiorno, secondo romanzo “dell’autobiografia delle contraddizioni”, che Mario Martone dirige a teatro nell’adattamento di Ippolita Di Majo, con protagonista Donatella Finocchiaro. Ne abbiamo parlato con il regista napoletano in occasione del debutto alla sala Verga, dove lo spettacolo rimarrà in scena da stasera fino al 24 aprile.

Com’è nata l’idea di portare a teatro Il filo di mezzogiorno?
«Premetto che per me Goliarda Sapienza è sempre stata un riferimento importante, tanto che con Ippolita, con cui spesso scrivo le sceneggiature dei miei film, abbiamo anche accarezzato l’idea di realizzare una pellicola da L’arte della gioia. Durante le riprese di Capri-Revolution però Donatella e Ippolita hanno iniziato a parlare del loro comune amore per Goliarda, così è venuta fuori l’idea di trasporlo. All’inizio il regista dello spettacolo non dovevo essere nemmeno io ma dopo aver letto il testo e il lavoro di adattamento sul romanzo, mi sono unito all’impresa ed è nato lo spettacolo».

Tra l’altro lei non è nuovo alla trasposizione cinematografica di romanzi, penso a L’amore molesto di Elena Ferrante e a Noi credevamo di Anna Banti.
«All’origine c’è una mia naturale predisposizione all’avanguardia, dove sperimentare e contaminare linguaggi è la regola. Ovviamente un romanzo può essere un materiale scenico, cinematografico interessante, molto dipende da come lo s’incastra all’interno del lavoro. In questo caso ho contribuito alla realizzazione di un’idea scenografica che concretizza la visione di quei due spazi che Ippolita ha immaginato. Il filo di mezzogiorno, oltre ad essere una biografia, infatti, è anche un play incentrato sul rapporto tra Goliarda e il suo analista. Ora è chiaro che abbiamo voluto raccontare due piani: uno della loro relazione, l’altro dell’inconscio, del mondo dei ricordi che affiorano faticosamente nel corso della terapia».

Lo spettacolo è una grande co-produzione che coinvolge i Teatri di Napoli, Torino, Roma e Catania.
«Più che grande direi un’affettuosa e sentita collaborazione perché lo spettacolo, pur avendo una sua complessità, anche scenica, è pur sempre un lavoro a due personaggi. I teatri che hanno voluto partecipare al progetto l’hanno fatto per la considerazione che hanno di Goliarda Sapienza, per la bellezza del suo libro e per l’adattamento che ne è venuto fuori. È un lavoro dove c’è tanto amore».

Nell’antichità si credeva che mezzogiorno fosse l’ora dei demoni mentre per Goliarda è il momento in cui ricostruire la frattura del suo inconscio.
«A quel tempo Goliarda stava talmente male che non era in grado di uscire di casa, fu allora che Citto Maselli chiese a Ignazio Majore di svolgere le sue sedute nell’appartamento della scrittrice, dove lui andava regolarmente a mezzogiorno. Da qui il titolo del romanzo».

Attrice prima, scrittrice poi lei crede che in qualche modo Goliarda Sapienza abbia pagato lo scotto di essere troppo libera per la sua epoca?
«Non c’è alcun dubbio, Goliarda è stata rifiutata da tutto il mondo culturale maschile. La sua eccentricità era mal tollerata sia dall’ambiente borghese sia dai compagni di sinistra e la storia dei rifiuti editoriali la dice lunga. Il fatto che L’arte della gioia sia stato pubblicato solo dopo la sua morte è qualcosa d’inammissibile».

Non a caso abbiamo dovuto aspettare che il riconoscimento della sua grandezza arrivasse da Germania e Francia dove per la prima volta il romanzo ebbe successo grazie alla determinazione del marito Angelo Pellegrino.
«È molto bello il modo in cui Angelo ha saputo curare e trasmettere il suo lavoro. Tutte le sofferenze che Goliarda ha dovuto patire alla fine sono state ripagate dall’amore dei lettori che via via è cresciuto sempre di più e di cui Angelo è sicuramente il motore. Attraverso il nostro spettacolo abbiamo potuto vedere l’entusiasmo di coloro che da sempre amano Goliarda, ma soprattutto di chi non la conosce. In tantissimi ci hanno scritto, dopo aver visto lo spettacolo, che avrebbero letto i suoi libri».

A interpretare la scrittrice è la catanese Donatella Finocchiaro mentre Roberto De Francesco veste i panni di Ignazio Majore.
«Donatella è un’attrice e una donna straordinaria come solo i catanesi sanno essere e sono molto fiero che per questo spettacolo abbia vinto il premio Eleonora Duse. Roberto lavora spesso con me ed è fantastico nel ruolo del dottore. Non vediamo l’ora che lo spettacolo debutti a Catania».

Stasera ci sarà anche lei in sala? 
«Purtroppo no, anche se con il cuore sarò lì, ma ci sarà Ippolita. Ci teneva moltissimo a esser presente al debutto nella città natale di Goliarda e domani terrà un incontro all’Università in cui parlerà del suo lavoro sul testo».

Lei è stato direttore di importanti teatri stabili, artista a 360° gradi e grande sperimentatore. Reduce dall’esperienza dei film d’opera su RAI 3, verso quali linguaggi si sta muovendo l’arte teatrale oggi?
«Io penso che dobbiamo guardare al cambiamento, alle novità e alle trasformazioni del teatro senza perdere di vista la sua antica essenza. La mia Bohème è nuova per il semplice fatto che allo stesso tempo è un film, uno spettacolo teatrale e un’opera ma in realtà non è nessuna di queste tre cose, però alla fine colpisce per la sua sostanza che è la stessa che ritroviamo in Puccini».

A cosa sta lavorando adesso?
«Il 25 maggio uscirà al cinema Nostalgia (unico film italiano in concorso al Festival di Cannes, ndr) e poi a giugno dirigerò Rigoletto alla Scala, un’opera che avrei dovuto fare prima che la pandemia lo interrompesse. Come ho già fatto a dicembre per l’Otello a Napoli, lo rileggerò in una chiave più vicina a noi».

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