Dal 6 al 28 febbraio 2019 il foyer del Teatro Stabile di Catania ospiterà l’esposizione del fotoreporter catanese, nella quale si indaga la figura femminile fra fede e speranza

Il fotografo ungherese André Kertész era solito affermare: «La macchina fotografica è il mio strumento. Grazie ad essa do una ragione a tutto ciò che mi circonda». Una massima che potremmo tranquillamente accostare al lavoro del fotogiornalista Antonio Parrinello, da sempre impegnato nel racconto per immagini e negli scatti di spettacoli teatrali. Per coniugare le due anime della sua arte, legate alla cronaca e alla narrazione nasce Martiri, la mostra fotografica ospitata presso il foyer del Teatro Stabile di Catania dal 6 al 28 febbraio 2019.

DONNE. «Per me è un onore esporre al Teatro Stabile di Catania –racconta– e di questo ringrazio la vicepresidente Lina Scalisi e la direttrice Laura Sicignano. Trovarmi in un tempio della cultura dove di solito le uniche foto presenti sono quelle di scena, mi rende doppiamente felice. La tematica scelta per la mostra è quella dell’accoglienza; non solo quella dei devoti nei confronti di Sant’Agata, frutto di un’attesa lunga un anno, ma anche quella verso i migranti giunti nel nostro territorio». Un’iniziativa in perfetta coerenza con lo spirito che anima la stagione in corso, dove le connessioni non soltanto collegano la sofferenza di uomini costretti a lasciare la loro terra a quella di chi si è immolato per il proprio credo, ma anche un modo per mettere insieme arti diverse. «Ho legato subito –prosegue– il martirio della Santuzza alla sofferenza che si può leggere sul volto delle donne migranti. Entrambe hanno sacrificato la loro esistenza, la prima per la fede, le altre abbandonando i posti in cui sono nate e vissute nella speranza di trovare una vita migliore».

Attraverso quaranta scatti, il percorso si snoda in una doppia direzione: da un lato c’è la narrazione dei tre giorni di Sant’Agata, dall’altro quella del fenomeno migratorio che ci interessa ogni giorno

PERSONALE. Il percorso, che si snoda nella doppia direzione, conta quasi quaranta scatti. «Le 17 foto in bianco e nero che raccontano attraverso una sorta di cronistoria le tre giornate di festa – spiega – sono state realizzate quasi tutte negli anni ’90 adoperando la pellicola. Un modo anche per descrivere i cambianti che hanno interessato il mezzo fotografico, dal momento che per creare i 16 ritratti di donne migranti, tutti rigorosamente a colori, ho usato una macchina digitale. Concordo – aggiunge – con i grandi maestri, che la cosa più importante sia il racconto, ma ritengo anche che la pellicola crei un’atmosfera diversa. Usare il rullino era un po’ come scattare fantasmi, non potevi vedere le foto fino a quando non le sviluppavi. C’era pertanto un’adrenalina e un’attenzione verso la composizione della fotografia nettamente superiore a oggi, dove tutto è più immediato. Il digitale, infatti, ti permette non solo di vedere in tempo reale l’immagine ma anche, tramite dei software, di lavorare sullo scatto; la mia mentalità però è rimasta quella del negativo. È importante immortalare il soggetto rispettando la sintesi, la geometria della foto, anche se riconosco che non è sempre possibile». Una difficoltà che ha toccato con mano sia nell’uno sia nell’altro caso; circostanze in cui la prontezza è tutto per non perdere l’unicità del momento. Una carrellata di particolari ma anche di totali, per la terza Festa religiosa più importante al mondo, in cui emerge la creatività per l’uso del mosso o di altri effetti esaltati dal bianco e nero, mentre per le foto delle migranti l’attenzione si focalizza più sullo sguardo, gli occhi o i piccoli gesti: «Come qualche mamma –osserva – che tiene il proprio bambino in braccio o lo allatta. Fotografie che mi hanno catturato e che ho tenuto fino ad oggi solo per me. In quei momenti l’unica cosa da fare è registrare quell’istante dandogli un taglio giornalistico, di racconto puro».

RIFLESSIONI. Di occhi carichi di disperazione Antonio Parrinello ne ha visti tanti, occhi profondi in cui passato e futuro s’incontrano, in cui il riflesso di un lembo di terra all’orizzonte è sinonimo di salvezza. «In questi casi lo sguardo è sempre su di loro – aggiunge – ricordo che una volta durante uno sbarco a Messina è scoppiato un terribile temporale, mentre tutti cercavamo riparo un ragazzo noncurante della pioggia, si è inginocchiato, ha allargato le braccia e ha iniziato a pregare. Non potrò mai dimenticare neanche la disperazione dell’uomo siriano che durante un naufragio salvò una bambina. La teneva stretta perché voleva riconsegnarla ai genitori ma giunti al porto di Augusta, apprese che entrambi erano morti. Molti cercano di resistere ma quando il rischio di perdere la vita si fa concreto, partire diventa una necessità». Sorge spontaneo chiedergli che opinione si sia fatto di questa terribile emorragia umana: «In una situazione di emergenza, con degli uomini in mare, non possiamo far finta di niente e girarci dall’altra parte. Le soluzioni vanno cercate in altri contesti, con accordi fra i diversi paesi europei. Bisogna capire inoltre se non sarebbe meglio agire direttamente sul posto, una soluzione più adatta soprattutto oggi che il rischio di rimpatrio è alto. Essere rispediti in Libia, infatti, è più pericoloso che perdere la vita in mare; lì è facile subire altre violenze da parte di uomini senza scrupoli. È vero, di fatto, che gli sbarchi sono diminuiti ma altrettanto che la gente muore in mare. Il problema non è risolto, anzi se prima fra soccorsi e ONG c’era un controllo maggiore sia nelle acque che nei porti, dove i rifugiati venivano schedati, adesso il pericolo è per tutte quelle piccole imbarcazioni che non si fanno individuare e arrivano nelle nostre coste». Una questione come sappiamo di grande attualità che in quest’esposizione vuol mettere in risalto l’aspetto umano, d’altra parte siamo tutti fratelli al di là del colore, della razza e della religione.

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