Matt Dillon: «Francis Ford Coppola il mio mentore geniale. Oggi mi prendo cura dei miei attori»
Bad boy del cinema americano, in oltre quarant’anni di carriera Matt Dillon si è spesso confrontato con ruoli al limite, da Rusty James a Dallas Winston, fino ad arrivare all’impenitente serial killer immaginato da Lars von Trier per La casa di Jack. Sarà forse per quello sguardo torvo ed espressivo eppure l’attore, ospite alla decima edizione di Etna Comics, riesce spesso a dare ai ruoli che ricopre un’umanità straordinaria. Amante del belpaese, è la sua prima volta sull’Isola dove si racconta attraverso le pellicole che l’hanno visto protagonista, partendo proprio dal film del 2018. «Ho scelto di lavorare con Lars von Trier, nonostante il soggetto fosse molto oscuro. Sul set c’era un’atmosfera molto creativa e attori meravigliosi come Bruno Ganz, scomparso nel 2019. Sì, è stata un’esperienza molto intensa ma anche positiva».
GLI ESORDI. Ha solo diciannove anni quando Francis Ford Coppola lo sceglie prima per I ragazzi della 56a strada e poi per Rusty il selvaggio, consacrandolo a icona ribelle degli anni Ottanta. «Noi giovani attori volevano tutti far parte di quel cast sapevamo che essere diretti da Francis Ford Coppola poteva significare per le nostre carriere una grande spinta, come lo ero già stato per molti attori». Avvenne anche per lo stesso Dillon, che da quel momento inanellò un film dietro l’altro. «Io ero attratto dal cinema e per me Francis Ford Coppola è stato un mentore. Mentre giravamo, mi ha fatto conoscere molti film come Yojimbo di Kurosawa ma anche pellicole mute. Credo che anche il fatto di parlare di John Ford e dei maestri del cinema, facesse parte di quel processo di conoscenza al quale mi aveva iniziato. Il bello di lavorare con lui era comunque immaginare che tutto fosse possibile. Se aveva un’idea, la poteva far succedere con una semplicità incredibile. In poche parole un genio». Nelle oltre cinquanta pellicole che l’hanno visto attivo, ha trovato il tempo anche per recitare in numerose commedie come In&Out o Tutti pazzi per Mary ma anche in film drammatici come Paura, Factotum o Crash-Contatto, che nel 2006 gli valse la candidatura come attore non protagonista agli Oscar. «Sono molto legato ai personaggi che ho interpretato, anche se arriva un momento in cui devo divorziare da loro. Specialmente da alcuni, come Jack. Non avrei mai pensato in vita mia di vestire i panni a esempio di Henry Chinaski, alter ego letterario di Charles Bukowski in Factotum. Il bello di questo lavoro è che ti permette di fare cose che non avresti mai creduto possibili». Non nasconde però che per un attore non è sempre è facile. «Quando finisci un film o quando questo esce nelle sale cinematografiche, se ci hai creduto, tutta la fatica sparisce. Per La casa di Jack ad esempio Lars aveva capito che c’erano dei dialoghi scritti male che per me erano più difficili, ma con i quali alla fine mi sono confrontato lo stesso. Fa parte di questo mestiere».
IL DEBUTTO ALLA REGIA. Dopo aver diretto nel 2002 il thriller City of Ghosts, in cui raccontava la fuga nel Sud Est asiatico dell’assicuratore Jimmy dopo una truffa internazionale, nel 2016 Dillon torna dietro la macchina da presa, questa volta con un documentario El gran Fellové, sul musicista cubano Francisco Fellove. Due esperienze diverse ma ugualmente intense. «Ho impiegato sei anni per realizzare City of Ghosts, durante i quali ho continuato a lavorare come attore. È stato uno dei primi lungometraggi girati in Cambogia, un paese dall’atmosfera bellissima che però stava venendo fuori da un periodo storico difficile: la guerra e il genocidio. È stata un’esperienza unica perché la Cambogia ha una struttura sociale completamente diversa rispetto agli Stati Uniti d’America. Nonostante le numerose difficoltà, logistiche ma anche d’infrastrutture, per spostarci da un posto all’altro abbiamo dovuto costruire strade, ponti ma le persone ci hanno accolto con grande calore». L’approdo alla regia è arrivato gradualmente, dopo esser stato diretto per molti anni dai più grandi. «Da quando anch’io mi sono cimentato dietro la macchina da presa con un documentario, che rispetto al lavoro di finzione è molto più difficile dal momento che devi scrivere mentre giri, posso dire di esser diventato molto più empatico nei confronti dei registi. È una professione molto appagante alla quale tutti contribuiscono. Mi piace molto lavorare con gli interpreti verso i quali sento anche una grande responsabilità. Per me è stata una bella sfida, ovviamente ogni processo è una scoperta e solo alla fine capisci dove ti porta».
IL LEGAME CON L’ITALIA. «Credo che il cinema italiano abbia contribuito enormemente alla storia della cinematografia mondiale. Sin da giovanissimo ho apprezzato Federico Fellini ma anche Lina Wertmüller, che proprio in Sicilia girò Mimì metallurgico ferito nell’onore». E chissà che prima o poi non riesca a realizzare anche lui il sogno di lavorare con Matteo Garrone e Paolo Sorrentino, che reputa due talenti. A chi si vuole approcciare alla professione di attore però raccomanda: «Prima di tutto bisogna essere masochista, ma soprattutto volerlo e avere passione per la recitazione. Puntare tutto sul successo sarebbe sbagliato. Io ad esempio ho scelto di diventare attore non perché volessi essere esibizionista ma per dar vita ai personaggi, che sono come specchi, riflettono le nostre esperienze umane».