“Meglio che qua”, l’Italia che (non) muore di Nicola Ruganti
Uno dei modi in cui scandisco le giornate consiste nel ripescare parole che hanno fatto la storia del cantautorato italiano. Ieri L’anno che verrà, oggi Il pescatore. Domani, chissà. Perché le loro frasi stanno sempre a metà fra la poesia e la concretezza, fra la malinconia e l’attualità. E così le faccio arrivare en passant nelle mie conversazioni, fra i pensieri, nei motivetti che canticchio tra un’occupazione e l’altra.
Nel leggere Meglio che qua (Edizioni Il barrito del mammut) di Nicola Ruganti, non ci ho dovuto pensare poi neanche tanto. Me ne stavo lì, tra le mani questa raccolta di sedici racconti attualissimi, densi, scritti con la meticolosa oggettività di chi soffre insieme ai suoi personaggi, ma non vuole dirlo, e la canzone giusta è partita da sola.
Sta nel titolo di questo articolo, quindi non serve girarci troppo intorno. Facciamo finta che sappiate già qual è anche voi, che abbiate capito tutto. O che stiate già immaginando di capire. E concentriamoci, come ho fatto io all’inizio, su come l’autore ha impostato queste storie. Su cosa ci dicono i suoi dialoghi, le sue descrizioni, i nomi dei suoi protagonisti.
Sono spesso ragazzini con troppe energie e il peso della vita ancora da scoprire. Altre volte invece sono giovani disillusi, o adulti conservatori. Hanno alle spalle dei traumi di cui parlano poco, un po’ come accade in certe storie di Raymond Carver, e dentro agli occhi non sempre la scintilla di una luce. Però, in qualche modo, avanzano nel mondo. Non come zombie, ma come mine vaganti forse sì.
O come idee vaganti, ecco. Idee che hanno gambe e braccia, ma soprattutto cuori ammaccati. Teste che non sempre capiscono la complessità e la ferocia del mondo, che vorrebbero arrabbiarsi di meno e amare di più. Sono il ritratto di un Paese in ginocchio, ma che non si capisce se sta così perché prega, perché è crollato o perché si sta godendo un attimo di tregua prima di rialzarsi.
E allora, ecco, forse adesso lo intuite meglio cosa c’entri in questo spazio l’armonica di Francesco De Gregori, sul filo sottile della stonatura o della melodia popolare. Lo sentite di più come si colloca la sua Viva l’Italia, che per qualche secondo ci sembra ironica, amara, e che alla nota dopo si capisce, invece, che che ci prende sul serio, che ci vuole bene.
L’ho riascoltata prima di commentare i racconti di Ruganti, questa canzone. E ho notato che alcuni dei suoi personaggi – e delle evocative tavole che accompagnano le loro vicende – non sarebbero d’accordo con il testo del brano, o non lo capirebbero. Mentre altri l’avranno già imparato a memoria, perché volenti o nolenti rappresentano a loro volta «l’Italia che è in mezzo al mare, / l’Italia dimenticata e l’Italia da dimenticare».
La stessa Italia, metà giardino e metà galera, che ritroviamo ogni giorno fuori dalla porta di casa, quella metà dovere e metà fortuna che è nuda come sempre, sì, ma che ancora oggi sta con gli occhi aperti nella notte triste: un’Italia, insomma, sull’orlo di una crisi di nervi, o di pianto, di risate.
Un’Italia che – e questo ce lo ricorda bene Ruganti – non sempre ha la possibilità di scegliere, che si scopre in mezzo agli eventi quando i giochi sono già fatti, i dadi tratti, e non può che rimboccarsi le maniche e continuare a camminare, a guardare davanti a sé, senza disperarsi poi troppo per le guerre, i politici, i suicidi, le crisi.
Adesso che siamo arrivati qui, quindi, possiamo ammetterlo: senza De Gregori a farci da spalla, Meglio che qua non avremmo saputo capirlo meglio. Perché l’anima di un popolo, con le sue lacerazioni e le sue guarigioni, sta fra i capitoli della letteratura come nelle rime della musica leggera, sullo sfondo di certe opere d’arte come in seconda serata in televisione.
Basta guardare meglio e la rintracceremo, proprio lei, sempre la stessa: bellissima e tremenda, straziante e imprevedibile. L’Italia che (non) muore.