A pagina 129 di Panza e prisenza, opera di Giuseppina Torregrossa pubblicato nel 2012, si legge: «Finirò scrafazzata come quei gusci che mi scricchiolavano sotto ai piedi a Santa Rosalia, pensò sconsolata».

Una frase il cui significato generale risulta abbastanza chiaro, anche se – come già accade nei celebri romanzi di Andrea Camilleri, non passa inosservata un’incursione del dialetto siciliano all’interno del testo, che lo rende più vicino alla parlata della popolazione locale e al loro modo di esprimersi, restituendo intanto un certo colore alla scrittura dell’autrice.

E così, concentrarci su questa pagina del romanzo ci dà l’occasione per guardare più da vicino questo insolito participio passato, scrafazzàta, che deriva dal verbo scrafazzàri o scafazzàri (il primo più diffuso nel palermitano e nell’agrigentino, mentre il secondo più comune nella Sicilia orientale).

La sua etimologia è infatti antichissima e legata al sostantivo greco skafe, che in passato significava fossa, tant’è che nel suo senso più proprio scafazzàri significa ancora oggi schiacciare contro il terreno, come a scavare per l’appunto una piccola fossa dove si è appoggiato il piede – tipica circostanza di chi, specie in questo periodo, calpesta le prime foglie autunnali.

Dopodiché, per estensione, nel corso del tempo ha iniziato a descrivere anche azioni più ampie al di là del ridurre in poltiglia o dello spiaccicare, come quella di schiacciare – anche in senso metaforico – e più in generale di rompere malamente, di rovinare o addirittura di distruggere, in base al contesto di utilizzo.

Così, a venire scafazzàta può essere per sbaglio una formica sull’asfalto, o appunto un personaggio letterario che si sente oppresso dalla situazione, come anche qualcuno che ha l’impressione di essere sovrastato dai propri stati d’animo, per riprendere un passo tratto stavolta da Pazza è la luna di Silvana Grasso, edito nel 2007: «[…] rispose Agatina, scafazzàta anche da quell’emozione» (p. 188).

Una parola dalle tante sfaccettature, dunque, che con la sua sonorità prorompente e onomatopeica testimonia la grande varietà lessicale ed emotiva del dialetto siciliano.

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