Sciascia aveva ragione: la trattativa Stato-mafia e le sue intuizioni a quasi 50 anni di distanza

La corte di Assise di Palermo ha emesso la sua sentenza: la trattativa Stato-mafia, a metà degli anni ’90, è realmente esistita. Dopo interminabili indagini, accuse e contro accuse, diti puntati e smentite di rito, un primo punto fermo sembra essere stato apposto sulla vicenda probabilmente più losca della storia della Repubblica italiana. Era ora, direte voi: dopo tutto il tempo speso a scavare tra scartoffie ed intercettazioni, era naturale che, finalmente, ne nascesse qualche frutto. Un decisivo passo avanti nella ricostruzione della verità, certo. Eppure, qualcuno era arrivato ad accorgersi della polvere sotto al tappeto ben prima…

Siamo nel 1972 e Leonardo Sciascia, sulle pagine della rivista Storia illustrata, pubblicava un agile quanto denso saggio – riedito qualche anno fa sotto forma di piccolo volumetto – dal titolo Storia della mafia. Come si può evincere fin dalla sua intestazione, lo scritto si proponeva di ripercorrere le origini della associazione criminale per eccellenza in Sicilia, dai primi vagiti di inizio ‘800 fino al tempo dell’autore, passando per il ventennio fascista e lo sbarco degli Alleati del 1943, evento altrettanto cruciale, a giudizio di Sciascia, nel determinare un radicamento mafioso sempre maggiore all’interno dell’isola. Ma l’analisi del nostro autore non si fermava qui, anzi. Con quella capacità tutta isolana di scrutare un quadro ben più ampio di quello offerto dalla lente di ingrandimento siciliana, l’autore racalmutese andava oltre la semplice ricostruzione cronologica e, senza mezzi termini, rendeva conto di un fatto all’epoca clamorosamente spiazzante, allorché scriveva che «una storia della mafia altro non sarebbe che una storia della complicità dello Stato, dai Borboni ai Savoia alla Repubblica» e che questa modalità di intimidazione avrebbe trovato «terreno di più rigoglioso sviluppo nell’Unità d’Italia e nel sistema democratico». Sciascia ci rivelava, con un’acutezza senza precedenti, che il modo più giusto per trattare di mafia era quello di portare alla luce un segreto inconfessabile: che le strade del crimine e dello Stato non erano affatto parallele, bensì incidenti.

Cos’è, allora, l’operazione compiuta da Sciascia se non un istinto dettato dalla sua irreprensibile etica? Cosa, se non l’insopprimibile necessità di affermare come stavano le cose in un periodo in cui si faceva perfino fatica ad ammettere l’esistenza del fenomeno mafioso? Proprio come un chirurgo munito di bisturi o un cacciatore di tesori dotato di una mappa, lo scrittore fa della letteratura il suo strumento di ricerca principe: uno strumento capace di svelare gli inganni e le storture della realtà, che viene a trovarsi in posizione subordinata rispetto ad un’altra realtà – quella letteraria per l’appunto – portatrice di verità e di spirito critico. Con molto anticipo sui tempi, insomma, Sciascia aveva cominciato ad indagare quando nessuno (o quasi) riteneva sensato farlo. Riportando, infatti, le preoccupazioni che don Pietro Ulloa, procuratore generale di Trapani sul finire degli anni ’30 dell’800, esprimeva riguardo ad un certo atteggiamento di sottomissione dell’allora classe dirigente siciliana «al cenno di un prepotente» il nostro autore si chiedeva: «Leggeremo mai, negli archivi della commissione parlamentare antimafia attualmente in funzione, una relazione acuta e spregiudicata come quella di don Pietro Ulloa?». Sì, Leonardo, l’abbiamo letta: soltanto con quasi 50 anni di ritardo rispetto alle tue parole. Avevi proprio ragione, come spesso accadeva.

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Giornalista, laureato in Lettere all'Università di Catania. Al Sicilian Post cura la rubrica domenicale "Sicilitudine", che affronta con prospettive inedite e laterali la letteratura siciliana. Fin da giovanissimo ha pubblicato sulle pagine di Cultura del quotidiano "La Sicilia" di Catania.

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