Sradicati, vagabondi, incompleti: quante volte abbiamo maledetto le beffarde manovre del destino che ci hanno reso tali? E quante volte, contro ogni pronostico, contro ogni nostro proposito, siamo stati costretti a prendere decisioni ardue? È il conflitto ciò che più avvelena l’animo dell’uomo: sapersi fragile, vulnerabile, diviso tra le incontenibili ragioni del cuore e quelle ineludibili della mente. Una sensazione ben conosciuta dal popolo siciliano, che trova la sua sintesi perfetta nella vita e nella riflessione intellettuale di Vincenzo Consolo, uno dei tanti figli dell’isola malinconicamente condannato al distacco. Benché, infatti, il nativo di Sant’Agata di Militello non abbia mai lesinato critiche all’indolenza della sua terra, ne scorse sempre contestualmente le potenzialità di riscatto, la pura e innata volontà di sopravvivenza, la paura delle novità camuffata da indifferente fatalismo. Tanto da giungere alla conclusione che, a volte, per sopportare il peso di essere siciliani serve del tempo. Serve avventurarsi da soli tra le insidie del mondo, affrontarle di petto e accettarne le conseguenze. E poi, alla fine di questo percorso iniziatico, serve tornare là dove tutto ha avuto inizio.

La nostra storia, d’altro canto, non casualmente somiglia a quella da viandante di Ulisse, l’eroe omerico reduce dalle fatiche della guerra di Troia, disperatamente alla ricerca del ricongiungimento con la propria patria e i propri affetti e approdato in Sicilia in una delle tante tappe intermedie del suo amaro pellegrinaggio. Si deve proprio a Consolo il ricorso a tale parallelismo mitologico, che racchiude in sé, oltretutto, le stimmate dell’unicità siciliana. Mentre la parabola esistenziale del greco giunge a felice conclusione, quella dei siciliani implica un costante senso di sospensione, un timore ancestrale che la gioia del ritorno sveli la sua natura effimera. «Ormai – disse Consolo in un’intervista – siamo diventati degli Ulissidi, espropriati della nostra identità e alla ricerca della nostra Itaca. Quando torniamo però Itaca non c’è più; la patria è ormai diventato un luogo interiore. Vedendo la realtà siciliana fatta di ingiustizie ho deciso di spostarmi a Milano. Lo sradicamento (solamente fisico, le mie memorie sono qui) è doloroso, però alla fine necessario. Non è facile ricostruire legami in luoghi che non sono i tuoi. Ma stando qui si fa un danno a sé stessi. Bisogna però tornare e quando si torna si è più forti, forse anche meno vulnerabili, o meglio, meno “ricattabili”». Consolo tornò sempre, periodicamente, a casa. Perché, in fondo, a quell’identità che gli anni spesso fanno erroneamente apparire fin troppo labile, lo scrittore credeva senza indugio. Le sue parole sulla memoria, sulla capacità di sapersi ritrovare magicamente rinnovati e consapevoli dinanzi alle titubanze del passato, appaiono icastiche come una celeberrima scena che svela la poetica cinematografica di Tornatore. Quella in cui Alfredo, in Nuovo Cinema Paradiso, si rivolge a Salvatore svelandogli: «Fino a quando ci sei ti senti al centro del mondo, ti sembra che non cambia mai niente. Poi parti. Un anno o due, e quanno torni è cambiato tutto: si rompe il filo. Non trovi chi volevi trovare. Le tue cose non ci sono più. Bisogna andare via per molto tempo, per moltissimi anni, per trovare, al ritorno, la tua gente, la terra unni si nato. Ma ora no. Non è possibile. Ora tu sei più cieco di me».

Allo stesso modo Ulisse, rientrato ad Itaca, in un primo momento non riconosce l’atmosfera natia: la sua dimora è in mano ai Proci, il figlio Telemaco è cresciuto e solo il fedele Argo, prima di morire, ne riconosce immediatamente le fattezze. Ben presto, tuttavia, i ricordi della sua giovinezza riemergono prepotenti e ricompongono il mosaico originario: la nutrice Euriclea lo riconosce da una vecchia cicatrice sul piede, mentre Penelope si accorge che si tratta del marito dal fatto che questi, alla richiesta di spostare il talamo nuziale, risponde negativamente, avendolo egli stesso costruito in modo che fosse inamovibile. Così noi siciliani, sulla scia di Consolo, ad ogni nostro approdo nell’isola. Sempre pronti, però, a differenza dell’anziano guerriero di Itaca, a ripartire. A spiegare le vele verso ciò che ci intimorisce. Con la felicità alle spalle e sulle spalle.

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