«Io cerco l’emozione, e così dovete fare anche voi, mettervi alla prova, scattare, scattare, finché non trovate il giusto contatto con ciò che avete intorno. Dovete entrare in relazione con il soggetto. Dovete guardare il collettivo, muovervi continuamente, camminare fino al soggetto giusto, e poi scattare solo quando trovate ciò che davvero vi trasmette qualcosa».

Una bottega artigiana, un borgo di pescatori. Soggetti e contesti diversi da quelli che sono apparsi nelle mostre che in tutto il mondo (e da oggi anche a Catania) ci raccontano Michael Christopher Brown, il fotoreporter di guerra. Eppure, la costante della presenza siciliana di un giovane grande maestro della fotografia, celebrato tra i grandi di “Magnum Photographer”, è stata quella di uno sguardo al reale, che prendendo le mosse dal suo ultimo progetto, imperniato sul dualismo delle emozioni personali e impersonali, prova a raccontare la nostra isola.

Il fotografo americano, noto per aver realizzato con un iPhone i suoi scatti più importanti, ha infatti trascorso alcuni giorni in Sicilia e mentre si è dedicato alla realizzazione di un reportage ha avuto modo di confrontarsi con alcuni giovani colleghi, grazie al workshop promosso da Fondazione Oelle Mediterraneo Antico. Durante la sua residenza artistica a Catania, abbiamo avuto modo di conoscerlo ed entrare nel suo mondo.

Michael Christopher Brown in Sicilia (foto Federica Carrozza)

IL FINE OLTRE LO STRUMENTO. Al tempo di Instagram, il fatto che un fotografo decida di utilizzare uno smartphone per realizzare i propri scatti può apparire una scelta di moda. Ma tutto, per Brown è nato da una scelta dettata dalla necessità. «Parecchio tempo fa mi trovavo in Libia, ma a causa di una situazione complicata, perdetti tutta l’attrezzatura. Mi era rimasto solo il telefono, così utilizzai l’app Hipstamatic per realizzare alcuni scatti. Fu molto limitante, a partire dal formato obbligatoriamente quadrato, ma col tempo la tecnologia è andata avanti. Oggi l’iPhone mi permette di scattare molto velocemente, è discreto, mi permette di avvicinarmi alle persone e di guardare la scena con i miei occhi e non solo attraverso il mirino». Quando gli si chiede della qualità degli scatti realizzati con un telefono, la sua risposta è netta: «Penso che la cosa fondamentale nella fotografia sia il messaggio che vuoi mandare, l’emozione che viene trasmessa».

A fronte del suo amore per la tecnologia, e per le possibilità che essa offre, Brown contrappone sempre in tutti i suoi lavori la centralità dei rapporti umani. «Fin da quando ero bambino sono stato quasi sempre in viaggio. Mio padre mi ha abituato a conoscere le persone e vivere con gli stranieri. Forse è per questo che cerco culture diverse dalla mia. Per comprenderle, tuttavia, hai sempre bisogno di qualcuno che ti aiuti a interpretare il modo di vivere insito in un luogo». A fargli da “guida” in Sicilia, quindi, sono stati fotografi della Fondazione Oelle. «Mi hanno aiutato a scoprire i volti dei pescatori e degli artigiani, ad addentrarmi nelle vostre tradizioni e non solo».

TANZANIA. LAGO TANGANIKA. 2016. Stazione ferroviaria di Kigoma. (© Michael Christopher Brown) in mostra a Catania

IL PROGETTO. Tra uno scatto e l’altro Brown si confessa, e ci spiega la sua ricerca di sé. «Oggi lavoro a un progetto che sottolinea una nuova prospettiva. S’intitola “A more beautiful world is possible” (di cui alcune foto sono esposte a Catania ndr) e accomuna scatti che ho realizzato negli ultimi anni in contesti diversi: dalla California alla Palestina. A Los Angeles ho scattato per sottolineare i problemi quotidiani, le strade di Skid Row, con i senzatetto confrontandoli ai conflitti palestinesi».

La scintilla, per lui scaturisce sempre dal vissuto, dal confronto tra emozioni personali e drammi globali. «Ho iniziato a lavorarci nel 2017, quando la mia compagna ha avuto un incidente d’auto mentre era incinta di mia figlia. Poi sono successe tante cose: in Congo ho contratto un’infezione allo stomaco che mi ha causato un’appendicectomia, mio padre ha subito un intervento al cuore e la mia compagna ha subito un intervento chirurgico al cervello. In quel periodo, però, mentre mi prendevo cura di mia figlia era scoppiata la pandemia. Oggi credo che la mia sia una forma di fotogiornalismo creativo, una ricerca personale, dove accosto i problemi interni a quelli esterni».

LIBYA. BENGHAZI. 2011. 17:43:53. Imparando a usare armi antiaeree in una base dell’esercito governativo catturata. DAL LIBRO “LIBYAN SUGAR.” (© Michael Christopher Brown) – in mostra a Catania

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Federica Carrozza nasce a Messina nel 1994. Nel 2013 si diploma al liceo linguistico "E. Ainis", di Messina. Da sempre appassionata di arte, intraprende gli studi presso l'Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria. Nel 2013 ha partecipato alla realizzazione delle quinte per l’opera teatrale “La Traviata” per il Teatro Cilea, Reggio Calabria. Nel 2014 ha preso parte allo spettacolo “Quale Memoria”, al Teatro Athena, Reggio Calabria. Nel 2015 lavora come fotografa di scena per il cortometraggio “Fatima”, di Mario Vitale e per la pubblicità progresso “Glass and Rape”, di Placido Sturiale. Nel 2016 consegue il diploma di primo livello in Scenografia, presso l'Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria. Dopo un'esperienza all'estero, decide di proseguire gli studi dedicandosi completamente alla sua passione per la fotografia, iscrivendosi nel 2019 al corso biennale di Fotografia presso l'Accademia di Belle Arti di Catania, guidata da un forte interesse verso il mondo del sociale e del reportage.