«Ci sono state molte occasioni, nella mia vita, in cui sono emerse immagini interessanti da luoghi che avevo considerato poco interessanti. Io ho bisogno di accettare che accadano le sorprese e che siano le sorprese a determinare il risultato. Un risultato a volte superiore a quanto avessi auspicato. Il vero motore dello sguardo è lo stupore».
Micheal Kenna nasce a Widnes, una cittadina industriale nel nord dell’Inghilterra, nel 1953 in una famiglia povera di cattolici irlandesi. Il suo destino, almeno inizialmente, sembra quello di diventare sacerdote. Frequenta la scuola seminariale per sette anni, fino a diciassette anni. Scoperta la passione e il suo talento per l’arte, decide di abbandonare la carriera ecclesiastica e, nonostante le resistenze della famiglia, si trasferisce a Londra per studiare pittura e fotografia. Sui sei anni vissuti in seminario il fotografo inglese in una intervista ha dichiarato: «Ci sono stati molti aspetti dell’educazione religiosa che credo abbiano fortemente influenzato il mio lavoro nella fotografia, come la disciplina, il silenzio, la meditazione e l’idea che anche dove le cose possono essere invisibili, può esserci comunque una presenza».
Inizia a lavorare come fotografo dopo essersi avvicinato ai maestri dell’immagine Henri Cartier-Bresson e a Cornell Capa, fratello di Robert Capa. Alla fine degli anni ‘70, Kenna si trasferisce negli Stati Uniti, e va a vivere a San Francisco e poi a Seattle, dove attualmente risiede. Nella città del Golden Gate ha l’occasione di assistere Ruth Bernhard, fotografa di nudi e nature morte, affinando tecniche di stampa nella camera oscura che gli saranno preziose nel prosieguo della carriera.
La fotografia di Michael Kenna è davvero unica nel suo genere. La scelta del bianco e nero, il grande formato delle sue foto, e la predilezione per tempi di posa lunghi con condizioni di scarsa luminosità rendono le sue immagini sempre riconoscibili. Del suo stile, l’amica Ruth Bernhard ebbe a dire: «Sembra essere venuto da un tempo e da uno spazio diversi. Il bianco e nero, secondo Michael, ispira l’immaginazione dello spettatore e lo porta a completare il quadro con l’immaginazione. Dopo tutto, vediamo il colore per tutta la vita, il bianco e nero è quindi un’interpretazione del mondo, piuttosto che una copia di ciò che vediamo»
Le sue immagini, come quella qui presentata, sono frutto di un’acuta sensibilità e osservazione dell’ambiente che si traduce non in una descrizione, ma in un’interpretazione carica di suggestione. La foto racconta la lunga familiarità tra il fotografo inglese e «un caro, vecchio e saggio amico», come l’artista definisce il fiume Po. Lui stesso presenta così lo scatto: «Negli anni tra il 2009 e il 2017 sono venuto più volte in Italia per fotografare il Po. In tutto questo periodo è come se avessi familiarizzato con una persona amica. Le foto scattate al Po sono il riflesso delle mie conversazioni con lui. Spesso paragono la fotografia all’incontro con una persona. Perché è così? Cosa forma i legami d’amicizia e d’amore? Come fa uno in apparenza estraneo, di un altro Paese — com’è il Po per me — a diventare un caro amico? Succede e basta». L’effetto delle nuvole in movimento lascia senza parole. Somiglia a una grande esplosione, simile ad una bomba atomica, in un paesaggio muto e completamente spoglio. Gli alberi, in fila, quasi in posa, aspettano di essere fotografati.
Kenna preferisce costruire le sue immagini durante condizioni atmosferiche più cupe, come il cielo nuvoloso, la pioggia e la nebbia, lavora molto di notte e all’alba quando i paesaggi si fanno ancora più silenziosi. Spesso vi rimane ore per studiarli, esplorarli, entrando così in simbiosi con il mondo circostante. Nelle sue foto dell’uomo non c’è traccia. Un lavoro paziente e meticoloso che trova il suo compimento nella camera oscura, dove la sua maestria nello sviluppo gli consente la realizzazione di opere uniche, «più vicine alla poesia che al racconto», come ha raccontato lo stesso Kenna in un’intervista.
Il fotografo inglese ancora oggi lavora in analogico e quando va in giro per il mondo non ha l’assillo di avere il risultato subito. «Non credo che l’analogico sia migliore del digitale – afferma – sono cose diverse, io preferisco continuare con il processo tradizionale dei sali d’argento. Non ho il bisogno o il desiderio di una gratificazione immediata nella fotografia, è il lungo e lento viaggio verso la stampa finale che mi affascina».