In principio fu l’avvento della televisione; poi fu la volta di Internet, seguito infine dalla comparsa dei social. Un flusso sempre crescente di notizie e immagini ha rapidamente stravolto il modo di pensare e di approcciare i fatti di diverse generazioni e la Sicilia, in questo, non fa certo eccezione. Ma cosa c’era prima di questa rivoluzione? Chi si occupava di preservare ed estendere la memoria storica delle nostre comunità isolane? Figure a tratti leggendarie, musicisti raffinati dall’inventiva sorprendentemente giullaresca, uomini armati di chitarra o liuto che intonavano nelle piazze o durante le festività paesane dei motivi in apparenza semplici, ma che in realtà nascondevano uno studio e un sentimento non indifferenti. Stiamo parlando dei cantastorie, fonti inesauribili di trasmissione orale del sapere, degli usi e del folklore siciliano, eredi diretti dei rapsodi greci e cantori di un mondo che facciamo fatica a ricordare ma che ci è stato cucito addosso per molto più tempo di quanto si possa immaginare.

Custodi. Veri e propri e difensori di un’antichità significativa che andava insegnata perché vista non come una sequenza di eventi lontani e conclusi, ma come insieme di precetti assimilabili e spendibili nella vita di tutti i giorni. Ne sa qualcosa uno dei più grandi cantastorie che la nostra tradizione ricordi, quel Ciccio Busacca – proveniente dalla rinomata scuola paternese – che più volte, nei suoi versi accompagnati da tabelloni che illustravano la storia con delle “vignette”, si occupò di temi sociali, spesso addirittura con un anticipo strabiliante rispetto ai tempi. Scriveva, infatti, in uno dei suoi libretti, a proposito di una tragedia familiare e del delitto d’onore che vede coinvolto un padre emigrato in Germania per sfuggire alla miseria che, tornato, geloso per i tradimenti della moglie, compie una vera e propria strage:

A li soggiri Giuvanninu/non ci dissi na parola, perchì, caricu di nervi, fa parrari la pistola […]

Ora Vanni è sutta terra/quattru ‘nfami sunu morti/ddi tri figghi svinturati/tra lu chiantu e lu scunfortu. Siddu sbagghia la muggheri/e l’onuri vostru ‘ntacca/non macchiativi di sangu/ascutatulu a Busacca.

O ancora, a proposito della difficile esistenza condotta dai poveri pescatori – tema che non può non richiamare il grande modello verghiano – uno stralcio di Lu piscature sfortunatu recita:

E lu beddu piscaturi/tirminau li so vint’anni/cu tanticchia di duluri/si scuntau tutti l’affanni

Con la sua attenzione al sociale, alla condizione di infelicità di un uomo e di una terra troppo spesso martoriati, Busacca condivise delle tappe della sua carriera itinerante con altre eccellenze – siciliane e non – che mostravano delle affinità spirituali con la sua produzione. Fu così che di lui si accorsero personaggi quali Rosa Balistreri, Dario Fo e Ignazio Buttitta, con il quale in Che cos’è la mafia? scrisse dei versi che intendevano portare alla luce le malefatte mafiose quando ancora molti dubitavano persino dell’esistenza del fenomeno criminale.

Un esempio di storia illustrata
Un esempio di storia illustrata

Cosa resta del vibrare di quelle corde, di quelle melodie struggenti e vere? Un’analisi profonda del nostro modo di essere, delle sofferenze che hanno plasmato il nostro popolo, della brutalità e della bontà, della speranza di sopravvivere e della furia del tempo che si scontrano e si incrociano nel nostro essere diversi da qualunque altro popolo. I cantastorie come Busacca erano come delle spugne capaci di assorbire tutto il bene e tutto il male per poi rielaborarlo e sublimarlo in musica, contenitori di realtà che mettevano a disposizione degli ascoltatori vicende più o meno note, che le tessevano in racconti immortali capaci di penetrare nel tessuto sociale dei ricordi, pronti per essere ripescati all’occorrenza. Per questo oggi privati e associazioni si prodigano per conservare il ricordo di chi, per secoli, ha conservato l’immaginario di cui oggi ci nutriamo. Inconsapevolmente figli di note e passioni.

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