Questo contributo è parte di un dibattito scaturito dalla pubblicazione di una lettera aperta del rettore dell’Università di Catania, all’indomani di un tragico evento che ha coinvolto uno studente dell’Ateneo. In questo 2020 i più fragili tra di noi,  dentro e fuori il contesto universitario, rischiano di perdere la speranza nel futuro. Da dove ripartire?

I lettori possono intervenire con le loro lettere, che verranno pubblicate sul nostro sito, inviandole all’indirizzo redazione@sicilianpost.it

La lettera aperta del Rettore del nostro Ateneo, Francesco Priolo, sollecita una riflessione e pone delle domande ineludibili a quanti operano in questa Istituzione, per verificare i passi del nostro cammino umano e professionale, per dare delle risposte, per mettere in gioco noi stessi. Ancora una volta assistiamo alla drammatica realtà di avvenimenti che hanno visto in più occasioni la crisi esistenziale, in alcuni casi anche la scomparsa, di tanti giovani – ma anche di persone che giovani non sono più e che si sono trovate di fronte a difficoltà della vita senza pari.

La fragilità che incontriamo ogni giorno intorno a noi è la nostra stessa fragilità, di fronte alla realtà della vita e con la paura di affrontarla, una realtà che oggi assume il volto della pandemia e dell’isolamento, ma che è anche quella dell’incertezza del futuro, della ricerca di un lavoro, di una stabilità affettiva. Nasce spesso così uno scoraggiamento, uno scetticismo, sulla possibilità stessa di trovare un senso e una utilità per la propria vita. Ma non è un’ulteriore analisi ciò di cui abbiamo bisogno, soprattutto oggi, non si tratta di ricercare le cause immediate degli eventi, pur drammatici, che ci hanno colpito: ogni evento umano personale si rivela sempre più grande e misterioso del nostro tentativo di comprenderlo, di ridurlo. Né si tratta di trovare delle ricette semplicistiche che evitino il ripetersi di fatti simili, perché ogni ricetta parziale non elimina la radice profonda che è alla base di questi avvenimenti e, come qualcuno ha scritto, “non è sufficiente delimitare il baratro con del filo spinato”.

Possiamo tuttavia interrogare noi stessi, per chiederci come affrontiamo la nostra stessa fragilità, come diamo risposta al desiderio di pienezza e di significato che è in noi. Possiamo domandarci se anche in noi questo desiderio si sia affievolito, tanto da giustificare l’impossibilità di trovare ad esso compimento. In questo vedo anche la possibilità di una nuova alleanza tra le generazioni, a cui lo stesso Rettore fa cenno. Il lavoro culturale che ci viene chiesto di svolgere dentro l’Università parte sempre da una passione per il vero, alla quale sono chiamati sia le matricole che iniziano il loro percorso di studi quanto il docente ormai prossimo alla pensione. Ma la passione si gioca poi in un lavoro serio con la realtà, che sia quella delle scienze della natura o del pensiero umano. Mantenere vive queste due dimensioni del lavoro universitario, a venti come a settanta anni, è certamente un compito dal quale non possiamo prescindere, pur nelle innumerevoli forme e regole che oggi più di una volta rischiano di ingabbiarle e ridurle. Comunicare queste due dimensioni, introdurre i più giovani a questo affronto con la realtà, diventa allora per noi docenti un compito e una responsabilità affascinanti, un’occasione perché il nulla non prevalga. Riusciremo forse a dire “Vieni, cammina con me, perché anche io sono in cammino”.


Il dibattito:

La fragilità al tempo della pandemia e la lettera aperta del rettore Priolo

Francesco Riggi: di fronte alla tragedia rilanciare l’Università come luogo di alleanza tra le generazioni

Lorenzo Rapisarda: solo i rapporti umani autentici ci sottraggono alla disperazione

Elena Ardita: Saper condividere può fare la differenza: solo così nessuno rimarrà indietro

Giuseppe Di Fazio: Insegnare non basta, dobbiamo prenderci cura dei nostri studenti

Alfonso Ruggiero: Vivere l’istante per costruire il futuro: la grande scommessa a cui siamo chiamati


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