«Non si può uccidere
un uomo per così poco»
Pirrotta e la storia
di una morte assurda

Studio su “Storia di un oblio” è il terzo spettacolo della rassegna Altrove, curata dallo Stabile etneo. Lo spettacolo diretto da Roberto Andò, che crea un parallelismo con il “caso Cucchi”, sarà in scena dal 19 giugno fino all’1 luglio 2018 presso la Chiesa di San Nicolò L’Arena

Quanto vale la vita di un essere umano? Se esistesse un prezzo, quale sarebbe? Come si fa a rispondere a una domanda del genere? Non si può, soprattutto se il morto steso su quel lettino d’obitorio è tuo fratello, massacrato da quattro addetti alla sicurezza per aver rubato una lattina di birra scadente in un centro commerciale. Intanto che gli sferrano calci e pugni, nessuno si fa questa domanda neppure quando continuano a infierire sul suo corpo esanime e immobile sull’asfalto.

UN FATTO DI CRONACA. È una delle tante storie che tristemente si sentono al telegiornale e che non ha lasciato indifferente lo scrittore francese Laurent Mauvignie, autore del monologo “Quel che io chiamo oblio”, rappresentato per la prima volta nel 2012 al Teatro della Comédie-Française e proposto oggi dal Teatro Stabile di Catania per la rassegna Altrove con la regia di Roberto Andò e la toccante interpretazione di Vincenzo Pirrotta. Non servono fronzoli per raccontare un barbaro omicidio compiuto per divertimento, basta la prosa asciutta, diretta, e il racconto in prima persona alternato a tracce registrate per restituire la portata dell’evento.

LA MESSA IN SCENA. Entrati nella sacrestia della Chiesa di San Nicolò L’Arena, ci accoglie un uomo in abito scuro seduto su una sedia, accanto a lui all’interno di un sacco è disposta la salma del fratello maggiore mentre tutt’intorno sono sparsi i suoi effetti personali, imbustati ed etichettati. La vita di un uomo è ridotta a pochi oggetti: una maglia gialla e nera imbrattata di sangue, un paio di boxer, un pantalone da tuta, dei calzini, un paio di scarpe, un mazzo di chiavi, un documento d’identità, un cellulare e una lattina vuota. Di questo ragazzo non resta altro, oltre alla disperazione per la perdita di famigliari e amici. Ci assale un’atmosfera lugubre e sacrale ottenuta dal perfetto disegno luci di Salvo Costa e dal canto liturgico di Carlo Gesualdo da Venosa, posto in stridente contrapposizione con la canzone finale “By this river” di Brian Eno.

Foto di Antonio Parrinello

IL TEATRO COME RITO. Vincenzo Pirrotta, maestro di parola, racconta il dolore attraverso la voce, anche se non bastano i bisbigli o le urla per placare la disperazione di una morte tanto assurda, per cui è quasi costretto a liberare le emozioni per mezzo dello sguardo. Roberto Andò lo dirige con fermezza; non si limita a dettare le linee generali ma lascia un’impronta forte del suo operato in ogni aspetto della pièce. Sente l’urgenza di radicare questa storia a un’altra, una storia che per la sua atrocità ha creato indignazione ma che ancora oggi non ha colpevoli: la morte di Stefano Cucchi. È lo stesso Pirrotta che mostra la fotografia del geometra trentunenne, con il volto violaceo e tumefatto, avvicinandola allo sguardo dello spettatore inerme. Un racconto su più livelli, nel quale il protagonista potrebbe essere ciascuno di noi, massacrato solo per aver commesso una ragazzata, per aver indossato una maglietta gialla e nera o come nel caso di Cucchi perché non gli si è trovato addosso quel determinato quantitativo di sostanze stupefacenti. Ecco, dopo aver indossato quegli indumenti il ragazzo è pronto a passare oltre, non prima di essersi concesso l’ultimo saluto con un bacio o con una stretta di mano ai presenti, intervenuti al rito funebre. La sua intera esistenza non può e non deve essere destinata all’oblio, la sua tragica fine va raccontata affinché a nessun altro possa toccare un destino simile.
Una lucida e commovente riflessione, lontana dal sentimentalismo e dalla morbosità, che vuole ridare il giusto valore alla verità, alla giustizia e alla vita.

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