Nei classici pronostici immediatamente precedenti ad uno dei momenti più significativi della vita di ogni studente – la prima prova d’italiano dell’esame di maturità – il suo nome non era stato affatto evocato come papabile. Ma mentre tutto il mondo della scuola cercava di raccapezzarsi tra anniversari vari (Leopardi e Leonardo da Vinci i più gettonati) e improbabili previsioni di astruse analisi del testo, ecco che il nome e l’opera di Leonardo Sciascia facevano capolino tra i banchi roventi. Il brano? Uno stralcio tratto da Il giorno della civetta, romanzo pubblicato nel 1961 per i tipi di Einaudi, che consacrò lo scrittore di Racalmuto all’attenzione del grande pubblico. Un colpo al cuore, per alcuni, considerata la difficoltà di molti docenti, a causa di una cronica mancanza di tempo, a coprire l’intero arco del ‘900 letterario. Sorgono allora spontanei i seguenti quesiti: perché proprio Sciascia? Qual è la reale valenza della sua presenza in sede d’esame di maturità? E, anche qualora nello svolgimento del programma ministeriale non sia stato approfondito, perché un adolescente sul trampolino di lancio verso il mondo non può non conoscere Sciascia e il suo capitano Bellodi, figura abbastanza singolare nella produzione sciasciana?

Proveniente da quel di Parma, infatti, Bellodi non è siciliano, ma mostra una certa qual attrazione verso la nostra terra, quasi un istinto da investigatore che sa di trovare pane per i denti della sua curiosità. Si imbatte in un omicidio di mafia, e in tutto quello che ne segue: depistaggi, omertà, mascheramenti, insabbiamenti. E nonostante il capitano, e il lettore con lui, giunga sul limitare dell’intuizione decisiva, il caso sarà archiviato in maniera poco trasparente, in contemporanea, per giunta, alla momentanea assenza di Bellodi, rientrato a Parma. Che non a caso, alla fine del romanzo, rifletterà tra sé e sé: «Si sentiva un po’ confuso. Ma prima di arrivare a casa sapeva, lucidamente, di amare la Sicilia e che ci sarebbe tornato. “Mi ci romperò la testa” disse a voce alta». Che ne è della verità? Di quale messaggio fare tesoro di fronte ad una conclusione del genere, dove l’inestricabile ragnatela della menzogna sembra avere la meglio sull’onestà di quanti si battono per la verità? Non c’è dubbio: nella realtà tratteggiata dal romanzo a trionfare è il malaffare; ma se guardiamo al complesso della finzione, alla raffinata architettura della poetica sciasciana, la vera vittoria è quella della verità. Che emerge tra le righe, si fa spazio per mezzo di allusioni e ammiccamenti, ma che alla fine si palesa in tutto il suo fulgore. Perché nessun lettore, terminato il romanzo, potrà dire di non aver capito. In fondo, come conferma l’avvertenza che l’autore integrò al suo testo nel 1972, il proposito dell’opera altro non era che questo: sollevare il sipario sui meccanismi di funzionamento della mafia; condannare di fronte alla giuria dell’opinione pubblica le collusioni e i favoreggiamenti; gridare ad un Paese che quasi scherniva coloro che mettevano in guardia dalla mafia l’esistenza di un cancro che aveva infettato ogni cellula apparentemente sana.

Ci volle ancora del tempo – almeno l’inizio degli anni ’80 – perché la coscienza collettiva acquisisse l’amara consapevolezza che la mafia fosse ben più che un racconto dell’orrore per spaventare qualche ragazzino. Ma come, direte voi? Nonostante gli avvertimenti di Sciascia? Ecco il punto focale della discussione. A questo ritrovarsi Sciascia tra le tracce della maturità è servito: a rendersi conto che spesso la realtà non è ciò che appare, ma ciò che ci viene propinato; che la letteratura, regno della finzione, narrando il falso artistico può dissodare le radici del male con forza inaudita, mettendoci di fronte alle nostre responsabilità. La letteratura è più vera della realtà, il luogo dove cercare quelle risposte che ci vengono negate dalla vita. E chi poteva cercare insieme a noi se non un personaggio alla Bellodi, uno straniero che, in quanto tale, può gettare luce sulle crepe di una società verso cui non è fortemente ed emotivamente coinvolto? A volte la cura è il distacco, il rifiuto a dipingere la nostra realtà secondo i canoni che riteniamo più consoni alla nostra visione.

Ora, caro maturando, se ti sei chiesto quale fosse la ragione che ha portato il tuo percorso ad intersecarsi con quello di Sciascia, hai la soluzione al dilemma: di fronte al mortifero silenzio, c’è stato qualcuno che ha levato un inno rumoroso; di fronte al travestimento della realtà, qualcuno ha adoperato uno stratagemma simile, il mascheramento dell’opera d’arte, per indicarci la strada della verità. E cos’è lo scrittore, il poeta, l’artista, se non colui che profeticamente anticipa la vita stessa?

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