‘Ntoni, padron ‘Ntoni
e la doppia faccia
della malinconia siciliana
Saggezza della vecchiaia e vitalismo della gioventù, rispetto e attaccamento per le proprie radici contro il desiderio di scoperta di nuovi orizzonti: sono queste alcune dicotomie che caratterizzano padron ‘Ntoni e ‘Ntoni, rispettivamente nonno e nipote protagonisti de I Malavoglia, capolavoro verghiano pubblicato nel 1881. Due personaggi apparentemente lontani, portatori di una visione della vita a tratti diametralmente opposta eppure uniti, nella diversità della parabola delle loro esistenze, nella stessa sorte dall’essere siciliani, a partire dal loro nome. L’omonimia dei due, infatti, non è soltanto la rappresentazione di quella pratica tipicamente meridionale di dare ai giovani il nome dei nonni, ma è soprattutto un fine espediente letterario che l’autore utilizza per guidare il lettore ad un’interpretazione che vada ben oltre la superficie, in cui, col procedere della lettura, i due estremi della famiglia si scoprono più simili del previsto.
È la stessa, drammatica sorte ad accomunare i due personaggi: padron ‘Ntoni, strenuamente fedele agli ideali dell’onestà e del duro lavoro – a differenza degli altri paesani dell’Aci Trezza tratteggiata nel romanzo – si ritrova continuamente abbattuto da un’inesorabile sequela di tragedie: la morte del figlio Bastianazzo con l’annessa perdita del carico di lupini, la sottrazione dell’amata casa del nespolo per mano degli usurai e il fallimento di ogni tentativo di riscattarla, che gli impedirà di rimettere piede nella sua abitazione fino alla morte. Dall’altro lato, il giovane ‘Ntoni, costretto a partire per la leva militare e cambiato dalla lontananza, a tal punto da desiderare di viaggiare alla ricerca di se stesso prima, e poi da diventare un estraneo nel suo stesso paese una volta tornato, senza altra alternativa che partire di nuovo, questa volta per sempre e senza lasciare tracce. Uno, dunque, è il simbolo dei siciliani che credono nella resistenza statica, di chi affida le sue speranze alla terra che lo ha generato, fiducioso di ricevere, prima o poi, una ricompensa per gli sforzi profusi; l’altro è il capofila degli isolani che si aggrappano al movimento, all’ignoto della novità, nella speranza di tornare vittoriosi nei luoghi che sembrano averli rigettati.
Cos’è, allora, che in quanto siciliani, li unisce? La sconfitta e la malinconia, verrebbe da dire. Benché percorrano strade diverse, entrambi si ritrovano faccia a faccia contro un destino infausto, che fiacca momentaneamente la loro volontà di combattere, senza spegnerla del tutto, entrambi pensano e agiscono col peso ingombrante di una malinconia incurabile. E, se padron ‘Ntoni vede sgretolarsi il mondo di certezze che si era costruito, non tanto meglio va al nipote, che pure da quell’insieme di schegge e frammenti impazziti si era allontanato. La verità, in fondo, è che non è la realtà esterna ad essere frammentata, ma è l’anima del siciliano, a qualsiasi latitudine egli si trovi. Non basta fuggire dalle difficoltà per sopire quell’inquietudine che si porta dalla nascita e ‘Ntoni ne è l’esempio più evidente. Che si scelga di rimanere o che si preferisca dare una svolta lontano dai luoghi di origine, il siciliano sarà sempre scisso tra la speranza di riscatto dove ogni giorno si rischia la sconfitta contro il destino e la tentazione di, seguita dal disincanto di un’illusione andata in fumo, capire se è possibile sentirsi a casa presso nuovi orizzonti senza perdere il contatto con se stessi. Forse, il siciliano non è altro che un pendolo oscillante tra l’essere padron ‘Ntoni e l’essere ‘Ntoni.