BARMAN: «C’eri già all’inferno, vero Chet?».
CHET: «Sì, amico».
BARMAN: «E non era quello il posto in cui volevi stare?».
CHET: «Forse».

Sono le battute iniziali dello spettacolo “Tempo di Chet. La versione di Chet Baker” messo in scena da Leo Muscato per lo Stabile di Bolzano e del quale Paolo Fresu (tromba e flicorno), Dino Rubino (pianoforte) e Marco Bardoscia (contrabbasso) hanno curato la “colonna sonora” che stanno portando in tour quest’estate per poi ritornare in teatro. Unica tappa siciliana, domenica scorsa, piazza Duomo di Chiaramonte Gulfi, nell’ambito della rassegna estiva del paese ibleo. «Mi è subito piaciuta l’idea di entrare nella poetica di Chet» racconta il trombettista sardo. «È stato tra i musicisti che ho maggiormente ascoltato: ho un rapporto emotivo con la sua musica». Chet Baker nasce nell’Oklahoma delle tempeste di polvere; la crisi economica del 1929 risuona ancora nella testa del padre alcolizzato che trasferisce la famiglia sulla West Coast a caccia di nuovi inizi; ma perde lavori uno dopo l’altro, e sfoga le sue frustrazioni su moglie e figlio. Ragazzino, Chet Baker salta sulle scogliere delle coste californiane a precipizio sull’oceano per lasciarsi tutto alle spalle: il jazz è la via di fuga, il sogno d’una vita diversa. Ha un talento raro, che fa il paio con una bellezza fuori del comune.

Il mito di Chet Baker si compone alla velocità della luce: è quello dannato di chi cammina di lato, rasente i muri, schiva la normalità e assaggia gli eccessi. L’eroina diventa una consolazione quasi mistica. «La droga è stata importante per me» mi confessò in una storica intervista al Messina Jazz Meeting del 1985. «La droga ha avuto molta influenza su di me, come artista e come uomo. Se non lo avessi fatto, forse non suonerei come faccio oggi. Tutti i musicisti a quel tempo usavano droghe. Tutti quelli che vivevano e operavano con me, da Charlie Parker a Gerry Mulligan».

Chet Baker

Era il Baudelaire della tromba. La sua parabola ha avuto i lineamenti dell’ascesa e caduta di un mito: il successo, le copertine, le donne pescate dal mazzo come carte da gioco, i figli. Poi un atto dovuto, come pegno da restituire per tanta fortuna insperata, per i colpi violenti prevedibili (i pestaggi dei pusher, l’andirivieni dalle carceri, i processi, l’estradizione da mezza Europa), e per quelli che precipitano addosso inattesi, (il talento che sembra andare in fumo, una morte che non t’aspetti). E la vita presenta il conto. Muore a 59 anni Chet, cadendo da una finestra del Prins Hendrik Hotel di Amsterdam in circostanze mai chiarite.

«Cerchiamo di mantenere un equilibrio tra il Chet artista e il Chet uomo» spiega Fresu. «Si è spento dopo aver consumato la propria vita: dallo spettacolo emerge che il suo enorme talento l’ha per certi versi sprecato. Credo sia importante spiegarlo ai più giovani: non è necessario assumere droghe per creare, anzi spesso queste diventano una limitazione, sono luoghi oscuri che ingabbiano l’arte. Così fu anche per Chet».

La tromba di Fresu, come il piano dell’etneo Dino Rubino e il contrabbasso del salentino Marco Bardoscia, si muovono tra composizioni originali e riletture più dinamiche di brani di Baker. Viene invece rispettata nella sua intensità e drammaticità la emozionante “Everything Happens To Me”, proposta in chiusura del set. «Chet canta il tema di questa ballad con un filo di voce, come fosse l’ultima melodia da interpretare. Quando basso e batteria raddoppiano il tempo imbraccia la sua “Martin Commitee” con sordina per un assolo mozzafiato di sole sedici battute. Una intera vita in una manciata di note…».

Una vita passata a risolvere un conflitto che lo lacerava dentro e che ha raccontato attraverso musica intima e occhi da sconfitto, come quelli immortalati dal celebre scatto del fotografo palermitano Marco Glaviano: gli occhi sono socchiusi e il bocchino della tromba attende la sua naturale collocazione; Chet porta un cappello da cowboy, lo sguardo celato nasconde una bellezza atavica mentre le labbra sottili portano l’indelebile segno dello strumento. È una bocca innaturale la sua. Nel 1966 gliela ruppero in una rissa e sembrava essere finito. Eppure riuscì a riguadagnare quel suono vellutato e rotondo capace di raccontare una storia con sole tre note.

«Ho conosciuto Chet a Sanremo negli anni Ottanta» ricorda Fresu. «Al termine del mio concerto venne a farmi i complimenti: con me fu molto gentile, smentendo il mito della sua scontrosità. Ricordo bellissimo che lego alla sua poesia, che passerà attraverso gli anni e rimarrà per sempre». Immortale come l’Urlo del pittore norvegese Edvard Munch: “il grido più struggente del ventesimo secolo”.

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