Per amore della Sicilia:
il sacrificio di Colapesce che si rinnova in noi nella vita di ogni giorno
Come il giovane messinese divenuto leggenda, noi siciliani ci battiamo senza sosta per la nostra terra, la custodiamo nel nostro animo anche se la sua vista ci è privata e ci impegniamo affinché non precipiti sulle sue fragilità. E poi, come il nostro personaggio, ogni tanto torniamo sulle sue rive, orgogliosi di proteggerla e di poterla vedere una volta in più
Chi l’ha detto che le fiabe hanno un senso esclusivamente per i più piccoli? Che personaggi più o meno bizzarri o inverosimili non siano capaci di comunicarci verità profonde e inaspettate? Tali considerazioni, poi, assumono una valenza ancora maggiore prendendo in considerazione numerose leggende siciliane, caratterizzate sempre da un tocco di malinconia, di mancanza, di dolore. Perché il mito, nella nostra isola, non è soltanto una storia da trasmettere per diletto a qualche curioso uditore, ma è il racconto del nostro modo di guardare il mondo, la rivelazione ancestrale di ciò che, tuttora, continua a formarci nella nostra inconfondibile identità di essere umani, che riflette le nostre tensioni e i nostri desideri, le nostre paure e le nostre aspirazioni. È il caso della nota e fantastica vicenda del giovane Colapesce: vi siete mai soffermati a pensare che un racconto all’apparenza così semplice e di immediata comprensione potesse celare una vastità incalcolabile di insegnamenti sempre attuali? A pensare di potervi specchiare perfino nell’immagine di un abile nuotatore, figlio di un umile pescatore messinese?
Proprio così: in una delle versioni siciliane di un mito che ha il suo radicamento in età bassomedievale, un tale Nicola fu paragonato ad un pesce per le sue abilità natatorie fuori dal comune. Le gesta del giovane, che al ritorno dai suoi infiniti viaggi lungo i fondali marini millantava di essersi imbattuto in paesaggi magici e ricchezze strabordanti, destarono tanta curiosità che perfino il grande sovrano Federico II volle constatare di persona l’eccezionalità dei fatti e metterlo alla prova. Dalla sua imbarcazione, infatti, Federico si divertiva a gettare in mare oggetti preziosi ad una profondità sempre crescente e ogni volta, con rapidità sorprendente, Colapesce riemergeva in superficie con quello stesso oggetto. Fino a quando, gettato da Federico un anello nelle profondità degli abissi, il ragazzo non risalì più. Si dice – e tale conclusione suggestionò anche un grande esponente della nostra letteratura come Italo Calvino – che si fosse accorto che la nostra amata Trinacria poggiasse su 3 colonne e che una di esse, a causa del logorio del tempo (altri ancora attribuiscono la colpa alla lava dell’Etna) si fosse deteriorata a tal punto da essere in procinto di crollare. Senza pensarci troppo, perciò, Colapesce prese il posto della colonna distrutta e dal quel momento, come il più celebre esempio greco del gigante Atlante che sorregge il mondo intero, il suo sostegno consente all’isola di non sprofondare e di continuare a vivere nei secoli. Ogni 100 anni, tuttavia, pare che il giovane messinese risalga dagli abissi per contemplare la sua adorata terra, per verificare che il suo sforzo non sia vano. Quello di Colapesce, a ben vedere, è un vero e proprio sacrificio, che dice molto sul nostro modo di essere e sul nostro rapporto con la Sicilia.
Come per il mitico protagonista della nostra storia, infatti, è naturalmente insito nella nostra indole spenderci, batterci per la sopravvivenza della nostra terra. Ne conosciamo le fragilità, le crepe, simili a quelle della leggendaria colonna, la tendenza a precipitare su se stessa. E allora le veniamo in soccorso, preferendo la sua incolumità alla nostra e anche lontani, anche a chilometri di profondità, la teniamo nel cuore e ci assicuriamo che nulla le accada. E infine, proprio come Colapesce, non possiamo fare a meno, di tanto in tanto, di tornare ad ammirarla, di ricordarci quello che abbiamo perduto, di far sanguinare una ferita non rimarginata per trovare nuovamente la forza di cercarla e di allontanarci. Tutti noi, scientemente o meno, siamo le colonne della nostra terra: alcuni lo sono alla luce del sole; altri lo sono più in profondità, nell’ombra; altri ancora lo sono a dispetto della distanza. Che non è sempre un abbandono disperato: ma, a volte, è andare a cercare il posto in cui si può essere utili, in cui ci si può realizzare, in cui si può scoprire il proprio scopo esistenziale. Tanto, prima o dopo, alla maniera di Colapesce, torneremo sulle sponde siciliane, vittoriosi nell’aver custodito il suo ricordo e la sua salvezza.