Piazza e Grassadonia: «Con “Iddu” sfidiamo i canoni del racconto di mafia per interrogare le coscienze»

«Ci è sembrato interessante ricostruire il profilo psicologico di un uomo che si considerava un intellettuale. La sua capacità di cambiare racconto di sé stesso a seconda dell’interlocutore è un elemento singolare». Dopo il successo ai David di Donatello con “Sicilian Ghost Story”, i due registi si cimentano in una pellicola che si sofferma su un momento preciso della latitanza di Matteo Messina Denaro: gli inizi degli anni Duemila. A fare da contorno alla sua figura, interpretata da Elio Germano, un mondo di personaggi che si muovono tra il grottesco e la mediocrità, primo fra tutti l’ex sindaco di Castelvetrano, i cui panni sono vestiti da Toni Servillo: «Questa figura ci ha permesso di accendere una luce su quel mondo, che è il nostro reale interesse, fatto di assoluta inconsistenza morale. Un mondo di morti che ancora non si sono resi conto di essere morti»

“La realtà è un punto di partenza, non una destinazione”. Una dichiarazione di poetica, questa di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia, scritta nero su bianco sul grande schermo, all’inizio del loro nuovo film. Perché «prendiamo dei frammenti di un mondo e li ricuciamo insieme attraverso il nostro lavoro creativo, per dire qualcosa che vada oltre i fatti e le informazioni da cui siamo sommersi ogni giorno e che restituisca l’approdo finale. La destinazione è la condizione umana che vogliamo raccontare, quella dei personaggi di questo mondo in particolare, ma anche la nostra in generale».

Il mondo a cui si riferiscono è quello di Matteo Messina Denaro, “Iddu. L’ultimo padrino”. Come recita il titolo del film (nelle sale dal 10 ottobre), che si addentra in un momento preciso della sua latitanza, agli inizi degli anni Duemila. Fino al giorno del suo arresto, avvenuto il 16 gennaio 2023, è stato lui il pezzo mancante della storia della Sicilia – e dell’Italia – degli ultimi trent’anni. Durante i quali la sua invisibilità ha rinsaldato la sua presenza, come dice nel film lo stesso Denaro, interpretato da un Elio Germano camaleontico che sembra indossare la pelle stessa del feroce latitante.

«Nei suoi pizzini citava Toni Negri o Daniel Pennac, tanto da fare dubitare che alcuni di essi fossero autentici. Questo alla luce del prototipo di figura che il mafioso corleonese aveva nell’immaginario collettivo, secondo il quale a stento aveva a casa un solo libro, ovvero la Bibbia»

DA NARCISO MANIPOLATORE A SCRITTORE EPISTOLARE. A ispirare i due autori siciliani sono stati «i famosi pizzini, noti già prima del suo arresto, dai quali emergeva la figura di un patologico narciso manipolatore criminale, con un ego spropositato, una nostra ipotesi confermata poi da quanto si è scoperto di lui dopo l’arresto». Ma a colpire di più i due registi è stato il fatto che «le necessità criminali dello scrivere avevano trasformato involontariamente Matteo Messina Denaro in una sorta di scrittore epistolare, che riusciva a cambiare tono in relazione agli interlocutori, citando Toni Negri o Daniel Pennac, tanto da fare dubitare dell’autenticità di alcuni di questi pizzini alla luce della figura prototipica del mafioso corleonese, che a stento a casa ha un libro: la Bibbia».

Invece, come dice il personaggio di Catello Palumbo, interpretato da un altrettanto trasformista Toni Servillo, “nessun uomo legge tanto quanto un carcerato”. E Matteo Messina Denaro il suo carcere se lo è costruito addosso in trent’anni di latitanza, «gestendo tantissime relazioni con una quantità enorme di pizzini da scrivere e da leggere, quelli della sua cerchia più stretta e quelli delle alte sfere. La sua capacità di cambiare racconto di sé stesso a seconda dell’interlocutore, considerandosi un intellettuale, era molto interessante». E ridicola. Come «ridicolo e tragico è lo spaccato del mondo che, intorno a lui, volteggia molto spericolatamente, in una commistione inscindibile che ci ha fornito quella chiave della commedia grottesca che poi abbiamo sviluppato» spiegano Piazza e Grassadonia. «Il grottesco è qualcosa che la stessa materia trattata ha rivelato e che abbiamo accolto poi con le nostre scelte narrative». Rielaborandone i codici, interpolati con la tragedia shakespeariana. Tra Amleto e Macbeth.

Foto di Giulia Parlato

TRA GROTTESCO E COMMEDIA ALL’ITALIANA. «Da un lato, c’è un personaggio come Matteo Messina Denaro, del quale avevamo scolpito questo ritratto psicologico, e grazie a Elio Germano e alla sua straordinaria capacità mimetica di scendere dentro le viscere dei personaggi che incarna, abbiamo potuto dare forma e consistenza materica a questo narciso. Dall’altro lato, c’è l’autentico ex sindaco di Castelvetrano, con il quale lui si scriveva sotto la giurisdizione dei Servizi segreti, una sorta di saltimbanco assediato dalla disperazione che ci rimandava agli straordinari personaggi della commedia all’italiana interpretati da Gassman e da Sordi. Con Toni Servillo si è aperta la possibilità di lavorare sulla maschera di quel simpatico italiano a cui volentieri, ogni tanto, staccheresti la testa!» sorridono.

«Questo Matteo che avevamo disegnato era lo specchio migliore per fare emergere ciò che si cela all’interno di una palude nella quale il tempo ha cessato di scorrere, ripetendo sempre sé stesso in un eterno presente che non cambia mai il segno»

In questo modo, Piazza e Grassadonia mostrano la miseria e la miserabilità di coloro che contornano la vita di questi boss e che di fatto, con la propria vigliaccheria e mediocrità, hanno reso possibile la forza di questi personaggi. Altrettanto mediocri, meschini e insulsi, ma con una differenza: la ferocia. «Questo Matteo che avevamo disegnato era lo specchio migliore per fare emergere ciò che si cela all’interno di una palude, la palude nella quale spaziamo e nella quale il tempo ha cessato di scorrere e di costruire futuri alternativi, ripetendo sempre sé stesso in un eterno presente che non cambia mai il segno. Questa figura ci ha permesso di accendere una luce su quel mondo, che è il nostro reale interesse, fatto di assoluta inconsistenza morale. Un mondo di morti che ancora non si sono resi conto di essere morti». A questo aspetto si aggiunge anche «la dissacrazione della famiglia di mafia, attraverso un forte carattere ridicolo, intenzionale ma totalmente realistico, a cui forse possiamo credere fino in fondo solo noi siciliani, per quanto anche le storie che nel film sembrano incredibili siano ispirate a fatti realmente accaduti».

Foto di Giulia Parlato

LA PRE-PRODUZIONE PRIMA DELL’ARRESTO. Dietro il film, infatti, c’è un lavoro di grandissima ricerca e documentazione. «Uno studio complicato perché, a quel tempo, intorno a Matteo Messina Denaro circolavano molte leggende e pochi fatti accertati, quindi separare la paglia dal grano è stato un lavoro certosino per evitare abbagli. Fondamentali sono stati i tanti atti processuali che abbiamo potuto consultare e il lavoro dei giornalisti sul territorio, che hanno svolto ricerche importanti e attendibili».

«Il suo arresto è stato importante, prima di tutto come cittadini, e poi come autori. Abbiamo potuto verificare l’attendibilità del ritratto psicologico che avevamo descritto»

È il 2018 quando i due registi iniziano le prime ricognizioni. Cinque anni prima dell’arresto di Matteo Messina Denaro, morto otto mesi dopo la cattura, il 25 settembre 2023. Ciò significa che Grassadonia e Piazza, coraggiosamente, hanno lavorato al film mentre “l’ultimo padrino” era ancora vivo e latitante. «Eravamo già in pre-produzione, stavamo terminando il casting quando è stato catturato» raccontano. «Il suo arresto è stato per noi importante, prima di tutto come cittadini, e poi come autori perché da quanto è venuto fuori dal lavoro investigativo, dalle intercettazioni, anche la sua immagine fisica e la sua voce, abbiamo potuto verificare l’attendibilità del ritratto psicologico che avevamo descritto e proseguire con maggiore serenità».

Ciò accade solo quando dietro a un bel film ci sono due bravi autori. Che conoscono il passato, osservano il presente. E presagiscono il futuro. «Non si può dire che la cattura non fosse nell’aria, soprattutto dopo le dichiarazioni che Salvatore Baiardo fece in televisione pochi mesi prima. La latitanza di Matteo Messina Denaro, così come altre pagine nere della storia di Sicilia e non solo, per esempio il depistaggio seguito alla strage di via D’Amelio, ha dei tratti sfuggenti e ambigui nei quali si intuisce la presenza di altre forze. Ma abbiamo sempre avuto consapevolezza che lui i suoi segreti se li sarebbe portati nella tomba, insieme ai nomi di quelli che hanno reso possibile questa latitanza di trent’anni».

Foto di Giulia Parlato

FINE DI UN’EPOCA E DI UNA TRILOGIA. Con la morte di Denaro si chiude un cerchio. E con “Iddu” si chiude la trilogia che Grassadonia e Piazza hanno dedicato alla criminalità organizzata, perché «con questo terzo film crediamo di avere detto ciò che ci stava veramente a cuore, attraverso una figura, quella di Matteo Messina Denaro, che è una figura di passaggio tra due mondi: quello di suo padre e dei corleonesi, dell’oppressione mafiosa violenta sul territorio siciliano, e il mondo di oggi a cui lui ha aperto la strada, quello degli affari dove la distinzione tra economia legale ed economia illegale è totalmente smarrita».

A differenza di “Salvo” e “Sicilian Ghost Story”, in “Iddu” «non c’è più nessun incontro che possa miracolosamente strapparti via dal percorso di morte in cui sei stato sospinto, allevato e plasmato»

In questo loro viaggio cinematografico, i due registi hanno destrutturato l’epicizzazione del fenomeno mafioso che la letteratura prima e il cinema dopo hanno a volte costruito nell’immaginario collettivo, anche fuori dai confini italiani. E hanno sottolineato come non si tratti di un fatto solo siciliano, ma che riguarda tutto il Paese. «Un certo tipo di impulso civile, quando cominci a ripeterlo incessantemente all’interno di una forma che si sta canonizzando, perde pregnanza e senso. Allora, per interrogare ancora le coscienze, devi muoverti forzando i confini di questo canone per non farti intrappolare da stereotipi o edulcorazioni. La scommessa come narratori, per noi, è stata di rianimare quell’impulso civile, mettendo dentro noi stessi, il nostro pensiero, il nostro modo di raccontare le cose, muovendoci sempre nella disattesa delle aspettative. A noi interessa esplorare come certe vite siano spinte all’interno di un percorso dal quale non riescono più a venire fuori». I primi due film, “Salvo” e “Sicilian Ghost Story” (disponibile su Rai Play), mettono in scena un incontro grazie al quale si poteva uscire da un destino feroce di non vita. «In quest’ultimo, non c’è più nessun incontro che possa miracolosamente strapparti via dal percorso di morte in cui sei stato sospinto, allevato e plasmato». Immerso in quella “Malvagità” cantata sui titoli di coda da Colapesce, autore della canzone – poetica e tagliente – e delle musiche originali del film. La malvagità che appartiene all’uomo. E che ride, gioca e spara. A volte si pente se cade. E si prende pure il cielo, lasciando un testamento senza eredità.

(Foto in copertina di Giulia Parlato)

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Ornella Sgroi è giornalista, critica cinematografica, scrittrice e sceneggiatrice. Collabora con il Corriere della Sera, la trasmissione “Cinematografo” di Rai Uno di Gigi Marzullo e alcuni programmi di Tv2000 (“L’Ora Solare” condotto da Paola Saluzzi e “Di Buon Mattino”). Si occupa di Cinema da vent’anni, e anche di Cultura, Spettacolo e Sociale. Il suo ultimo libro è “È la coppia che fa il totale. Viaggio nel cinema di Ficarra e Picone” (Harper Collins, 2020)

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