L’’autore di “Palombella Rossa” incontra il suo pubblico al cinema Odeon a Catania e parla del suo nuovo docu-film: una ricostruzione, attraverso interviste e filmati d’epoca del ruolo dell’ambiasciata italiana durante il golpe cileno del ’73. Una storia di semplice eroismo ma di grandissima attualità

La caduta del muro di Berlino determinò anche il crollò della geometria di un mondo diviso in due blocchi. Mentre la politica internazionale è oggi alla ricerca di nuovi equilibri, all’arte è affidato il compito di imprimere nella memoria collettiva quelle storie di prigionie e solidarietà che rischiano di finire troppo presto nell’oblio. La cinematografia degli ultimi tempi ne è prova: se “Cold War” ci ha incantato con la poeticità che connota i film di Pawel Pawlikowski, narrando l’amore ai tempi della cortina di ferro, e “Una notte di 12 anni” di Alvaro Brecner ci ha svelato la disumana prigionia degli attivisti Tupamaros durante la dittatura militare in Uruguay, la produzione italiana non è da meno. Con “Santiago-Italia”, Nanni Moretti racconta il golpe in Cile da una prospettiva inedita, intervistando quei fuoriusciti che ebbero salva la vita grazie al ruolo svolto dall’ambasciata italiana.

IL GOLPE IN CILE. «Appena arrivato in Cile   ̶   rivela Nanni Moretti che ha incontrato il pubblico catanese al cinema Odeon   ̶   l’ambasciatore italiano mi ha raccontato una storia che conoscevo, ma essendo accaduta 50 anni fa avevo dimenticato. Una bella storia italiana, di cui andare fieri ed orgogliosi». Nel 1970 l’elezione democratica di Salvador Allende, leader del partito Marxista Unidad Popular, accende i riflettori internazionali sul Cile e desta particolare preoccupazione negli Stati Uniti. Ne segue un triennio difficile durante il quale, mentre Allende porta avanti il suo programma politico, il Paese è percorso da continue proteste fino al golpe dell’11 settembre 1973. «Noi ragazzi italiani degli anni ’70   ̶   racconta il cineasta   ̶   guardavamo con molto interesse al Cile, a quel tipo di Governo e a quel leader. I suoi discorsi, in particolare quelli pronunciati poco prima della morte, sono una grandissima testimonianza, commovente ancora oggi. C’è un’immagine molto bella che non è merito mio in quanto materiale di repertorio: si tratta della scena in cui il candidato alla Presidenza Salvator Allende sale sul palco con un poeta, Pablo Neruda. In Italia non ho mai visto un uomo politico in un comizio accanto ad un poeta». Il film accanto a queste storiche immagini mostra numerose interviste di attivisti del MIR, il Movimento Rivoluzionario della sinistra cilena, o di sostenitori di Allende che scamparono alla morte e alla prigionia grazie all’asilo concesso loro dall’Italia.

C’ERA UNA VOLTA UN PAESE ACCOGLIENTE. «Nel settembre del ’73 l’ambasciatore italiano non si trovava in Cile, era rientrato nel nostro Paese per gravi problemi familiari. Furono quindi due giovanissimi diplomatici, Piero De Masi e Roberto Toscano   ̶   che rievocano la vicenda nel docu-film   ̶   a fronteggiare il nuovo clima politico, prendendo una netta posizione. Numerosi perseguitati politici infatti cominciarono a scavalcare il muro dell’ambasciata per chiedere asilo politico all’Italia e, mentre il nostro Paese non dava indicazioni ai suoi diplomatici, questi scelsero di accoglierli». Anche la Chiesa cattolica ebbe un ruolo fondamentale nella vicenda per mezzo del cardinale cileno Raul Silvia Henriquez e di una suora italiana che salvarono numerose vite.

L’ALTRO VOLTO DELLA TRAGEDIA. «Non intendevo fare un documentario schematico   ̶   prosegue il regista   ̶   ma volevo che a parlare fossero i protagonisti di quell’esperienza, inclusi i cattivi. Io in prima persona ero curioso di capire come i militari potessero giustificare le atrocità commesse e il golpe, quindi ho intervistato due combattenti e un ex militante comunista che con le sue delazioni ha decapitato il vertice del Partito Comunista cileno. Quest’ultima intervista è risultata talmente priva di pathos che poi ho deciso di non montarla, mentre ho inserito le due riprese ai militari. Il primo l’ho incontrato a casa sua, perché nonostante abbia svolto per tutta la vita la professione militare non è mai stato accusato di omicidio o tortura. Il secondo invece l’ho intervistato nel carcere di Punta Peuco, centro di detenzione per le poche persone condannate per le atrocità compiute dalla giunta militare». Gli intervistati si emozionano, si commuovono, ma soprattutto si fanno testimoni di una storia che dovrebbe oggi fungere da monito per una politica migratoria più umana. «Ho preferito stare dietro la mia macchina da presa   ̶   spiega Moretti   ̶   e raccontare questa storia con molta semplicità, riducendola all’essenziale. Ci sono dei momenti in cui gli intervistati non riescono ad andare avanti nella narrazione, si commuovono, perché il loro ricordo è una ferita che dopo mezzo secolo brucia ancora».

Quando il film è nato Nanni Moretti non pensava ad alcun riferimento agli odierni flussi migratori, oggi però è difficile assistere alla proiezione senza rincorrere paragoni tra passato e presente. «Un anno e mezzo fa quando ho iniziato a lavorare a questo film la situazione in Italia era un po’ diversa. Oggi, poiché il nostro Paese ha intrapreso una direzione opposta ai valori della solidarietà e dell’accoglienza   ̶   conclude   ̶   anche raccontare con molta semplicità una storia umana diviene un forte gesto politico. E allora così sia, che questo film sia un forte gesto politico».

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