Quando è un peccato nascere donna. Nedda, storia di lacrime e pregiudizi
Per abbattere un essere umano, spesso miseria, lutti e disillusioni non sono abbastanza. Ma l’indifferenza degli altri, il rifiuto di afferrare una mano tremante che chiede aiuto, sì. Come accaduto al personaggio verghiano, uno dei primi esempi di emancipazione condannata a soffrire per colpa del suo sesso
A volte, per fiaccare la resistenza dell’essere umano, non è sufficiente un destino avverso. Non basta la sventura, la miseria, la sofferenza. Sono tutti colpi ben assestati, tragici per il nostro cuore. Eppure non sono fatali, perché possono essere superati, in qualche modo. Siamo fatti così: quando sembriamo destinati al tappeto, riusciamo a raschiare il fondo del barile, scovare energie misteriose e inaspettate, ribaltare il corso degli eventi e ottenere il nostro agognato riscatto. Eppure c’è qualcosa, più forte persino della malattia e dell’indigenza, che può risultare una barriera impossibile da sopravanzare. Si tratta del pregiudizio, piaga sociale che ancora oggi fa sentire distintamente i suoi effetti e che, nella Sicilia a cavallo tra ‘800 e ‘900, si dispiegava con tutta la sua meschina virulenza. Così radicato e senza scrupoli da spingere Giovanni Verga a farvi ruotare attorno una delle sue novelle più famose, nonché quella considerata il primo abbozzo della sua futura poetica verista. Ci riferiamo a Nedda, scritta nel 1874 e avente come protagonista un’umilissima raccoglitrice di olive originaria dell’entroterra siculo. La sua storia, priva anche solo lontanamente di qualsivoglia risvolto positivo, mostra una donna fragile, sola. Ma allo stesso tempo uno dei più lirici esempi di coraggio ed emancipazione femminile della letteratura italiana.
È una donna, infatti, ritrovatasi cresciuta troppo in fretta, forgiata da amari lutti ed immani fatiche, da porte in faccia gratuitamente ricevute e da scottanti disillusioni, costretta a guardare la madre morire senza poterle offrire un aiuto concreto per mancanza di occupazione, e ad assistere al rapido deperimento dell’amato Janu, che nonostante la febbre malarica che lo tortura, e lo indebolisce di giorno in giorno, si incaponisce nel voler salire in cima agli ulivi. Da cui, stremato dal male giunto ormai al suo stadio più acuto, cadrà, ferendosi mortalmente e lasciando la povera Nedda, incinta di una bambina, nel più totale sconforto. Ma ci volle di più per distruggere ogni suo residuo di speranza. Non era solita arrendersi Nedda, che conosceva l’asprezza della vita e del lavoro, che si batteva per dare un futuro a quella disgraziata creatura che portava in grembo. Non aveva fatto i conti, però, con quel mostro che si annida dappertutto, anche se non si vede: il pregiudizio, appunto. «Adesso, quando cercava del lavoro, le ridevano in faccia, non per schernire la ragazza colpevole, ma perché la povera madre non poteva più lavorare come prima. Dopo i primi rifiuti, e le prime risate, ella non osò cercare più oltre, e si chiuse nella sua casipola, al pari di un uccelletto ferito che va a rannicchiarsi nel suo nido […] Diede alla luce una bambina rachitica e stenta; quando le dissero che non era un maschio pianse come aveva pianto la sera in cui aveva chiuso l’uscio del casolare dietro al cataletto che se ne andava, e s’era trovata senza la mamma; ma non volle che la buttassero alla Ruota – Povera bambina! Che incominci a soffrire almeno il più tardi che sia possibile!». La bambina morirà poco tempo dopo, tra le strazianti braccia della madre. Colpevoli, entrambe, soltanto di non essere uomini.
Non c’è coraggio più grande di quello di una madre che sacrifica il proprio essere per la sopravvivenza dei figli. Ma come il coraggio, altrettanto forte è l’istinto materno, la capacità di leggere, di predire l’avvenire della propria prole. Così il pianto a dirotto di Nedda non è rabbia per non aver partorito un maschio in grado di lavorare e portare a casa quel minimo di reddito utile per non sprofondare; ma è un grido, un insulto alla sorte che si era presa, ancora, gioco di lei, donandole una figlia destinata a patire le sue stesse pene. Perché ci fu un tempo in cui in Sicilia nascere donna rasentava il peccato. Quel tempo, che da noi ogni tanto riaffiora, da qualche parte, nel mondo, non si è ancora eclissato e continua a perpetuare indisturbato la sua ingiustizia. Perché non importa che tu sia rassegnata in partenza, succube di una vita che non hai scelto; non importa che tu sia resiliente e ribelle, guerriera della speranza, come Nedda, obbligata a sacrificare ogni parte preziosa di sé. Non importa. Perché spesso ciò che conta è l’indifferenza degli altri, il loro rifiuto. Ogni volta che non porgiamo la mano alla Nedda che ce la tende tremante, non siamo migliori del nostro passato. Non siamo migliori degli stereotipi che detestiamo.