Si usa dire spesso che le migliori traduzioni sono quelle infedeli. Che, paradossalmente, tanto più il traduttore riuscirà ad affrancarsi dall’ombra dell’autore originale, tanto più avrà reso degno servizio all’opera di volta in volta designata. Che la traduzione, insomma, deve essere anche, in parte, tradimento. Ma come conciliare questa dichiarazione d’intenti con l’autorevolezza degli immensi poeti che tentiamo di piegare alle regole del nostro codice linguistico? Come tradire serenamente il dettato originale di Rilke, Leopardi, Baudelaire, Neruda senza incappare nella stoltezza di annacquare la bellezza dei loro versi? Questione piuttosto ardua, verrebbe da pensare. E, in effetti, lo è. A meno che ad incontrarsi non siano due sensibilità complementari pur nelle loro fisiologiche divergenze. Due spiriti affini separati dal tempo ma uniti inesorabilmente dall’instancabile fluire della lirica. Tale magia può verificarsi soltanto quando un poeta traduce un altro poeta: quando lo struggente riverbero dell’uno finisce per dare vita all’afflato dell’altro. Tra i tanti casi di incontro letterario che si potrebbero prendere in considerazione, certamente emblematico risulta essere quello tra Catullo e il nostro Salvatore Quasimodo, raffinatissimo cultore della classicità di cui, tutt’oggi, campeggiano i meravigliosi frutti nelle antologie scolastiche. Nella trasposizione italiana dei carmi catulliani, infatti, emerge tutta la riservatezza e la dolcezza del poeta di Modica, il quale, aggiungendo ulteriore valore al testo originale attraverso delle significative sfumature personali, ha saputo rendere l’opera doppiamente immortale.

Benché la produzione di Catullo comprenda componimenti di vario genere – talvolta anche inaspettatamente ironici e taglienti -, non è un mistero che a catturare l’immaginario collettivo siano stati quelli dedicati al controverso e struggente amore per Lesbia, croce e delizia, musa e femme fatale del poeta latino. Non stupisce certo, dunque, che anche le traduzioni di queste liriche abbiano riscosso uno smisurato successo, stuzzicando la fantasia e l’abilità di critici e studiosi. Lo stesso Quasimodo fu ammaliato da quelle irripetibili preghiere d’amore, da quei sinceri e ricercati inni di disperazione. Proprio lui, già da circa un quindicennio sulla cresta dell’ombra (la prima raccolta capolavoro, Acque e terre, risaliva al 1930) e solitamente poco incline ad includere il tema amoroso nella riflessione poetica, non resistette al magnetico richiamo di quelle appassionate peripezie, sfornando versioni memorabili delle grandi liriche catulliane. Tra queste, non si può non menzionare il carme 5, nel quale, in barba ad invidie ed ingiustificati pudori, Catullo invita l’amata a vivere con pubblico trasporto il loro amore. Così la penna di Quasimodo rielaborò quella splendida confessione:

Viviamo, mia Lesbia, ed amiamo, / e ogni mormorio perfido dei vecchi / valga per noi la più vile moneta. / Il giorno può morire e poi risorgere, / ma quando muore il nostro breve giorno, / una notte infinita dormiremo. / Tu dammi mille baci, e quindi cento, / poi dammene altri mille, e quindi cento, / quindi mille continui, e quindi cento. / E quando poi saranno mille e mille, / nasconderemo il loro vero numero, / che non getti il malocchio l’invidioso / per un numero di baci così alto

A differenza dell’originale, che a tratti manifesta un tono più ardimentoso, quasi di sfida nei confronti degli occhi indiscreti, la resa di Quasimodo è lieve, intima, velata da una patina di felicità adulta, matura. Due cuori che nutrono una stessa, strabiliante creatura.

Perché, a ben guardare, la poesia non ha confini. Non ci sono barriere, steccati, muri così spessi da minarne la potenza. Non ci sono lingue, vocaboli, accenti così diversi da impedire il dialogo tra i suoi adepti. Forse, in fondo, come lo stesso Quasimodo non si stancava mai di ripetere, la poesia è essa stessa un linguaggio universale, che sgorga naturalmente come una sorgente, persino laddove alla sua meraviglia non venga dato un nome, e che si rende comprensibile per il semplice fatto di esistere e di rendere presente sentimenti così individuali da appartenere a tutti: «Osare la traduzione di un’opera vale innanzitutto come viverla e acclimatarla nel sangue per capirne così la voce vera, il modulo fantastico e quindi il timbro che la fanno universale e perciò poesia in sé stessa, al di fuori della lingua in cui è stata scritta e di quella in cui viene tradotta. La poesia, allora, è sostanza primigenia, di cui le lingue che la esprimono altro non sono se non meri accidenti».

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