Da qualche tempo a questa parte, da quando, cioè, il sottile velo della pudicizia e del buon senso è stato definitivamente squarciato, il 25 aprile è diventato sinonimo di caciara. O un ring, se preferite, in cui tutti i contendenti di questa imbarazzante baraonda trovano abilmente un motivo per dare addosso agli altri. Si rischia persino, nella concitazione della zuffa, di non distinguere gli schieramenti contrapposti, le posizioni estreme, le voci salutari ma minoritarie. Tutto è come annacquato, affogato in un rumore sordo e sgraziato. Aguzzando la vista, tuttavia, il quadro si rivela per ciò che realmente è. Ecco allora staccarsi dalla matassa i negazionisti “sbadati”, quelli a cui il famoso cane dei film americani di terza serie ha divorato le pagine del manuale di storia e che si sono messi in testa di riscriverselo da soli. Li seguono a ruota gli ingenui (mica tanto) che si fanno vanto della loro ignoranza, come se questa, piuttosto che inchiodarli alle loro colpe morali ed intellettuali, li assolvesse in toto da ogni castroneria. E che dire dei rapaci d’area di rigore che farebbero impallidire il buon Pippo Inzaghi? Quelli che si ricordano della Festa della Liberazione solo quando la sua esaltazione coincide con una propizia occasione di consenso, che colgono la palla al balzo per strumentalizzare fatti e persone senza curarsi di far coincidere quell’improvviso e accorato risveglio civico con un percorso di coerenza. Senza che l’immagine della persona si rifletta in maniera limpida su quella dell’affermazione. In questo Far West della ragione c’è solo un fattore che accomuna queste folkloristiche categorie: la dimenticanza. Il 25 aprile non è grido sguaiato. E non è neppure il fiato strozzato di una fanfara. Dovrebbe solo essere memoria. E, in quanto tale, umile silenzio. Al massimo, un sussurro che lascia spazio alle tracce ancora visibili di quegli orrori. Alle parole masticate di un sopravvissuto. Ai versi dei poeti.

Come quelli con cui Salvatore Quasimodo commemorò le vittime di uno degli atti più atroci perpetrati dai nazifascisti nelle ultime fasi della Seconda guerra mondiale: vale a dire l’eccidio di Marzabotto. Perché la poesia è anche dignità. Sottrae all’indifferenza le ferite che decantano sul fondo dell’anima. Le custodisce in eterno, le riesuma con la prepotenza di chi non cede al ricatto del tempo. Restituisce un nome ai perduti. Una presenza tangibile agli affanni di chi, altrimenti, sarebbe andato perduto tra le correnti della storia come sabbia nel vento. La poesia è un teatro di pietra, sulle cui pareti si muovono le circa duemila vittime della furia di Walter Reder, l’insensatezza di una crudele rappresaglia, lo sguardo attonito di un bambino ucciso perché colpevole, semplicemente, di avere dei sogni. Le macerie di città trasformate in cupi cimiteri di corpi divorati dal fuoco. Della stessa pietra è fatta la stele della collina di Miana, sui cui campeggia ardente Questa è memoria di sangue, il canto del nostro conterraneo:

Questa è memoria di sangue
di fuoco, di martirio,
del più vile sterminio di popolo
voluto dai nazisti di von Kesselring
e dai loro soldati di ventura
dell’ultima servitù di Salò
per ritorcere azioni di guerra partigiana.

I milleottocentotrenta dell’altipiano
fucilati ed arsi
da oscura cronaca contadina e operaia
entrano nella storia del mondo
col nome di Marzabotto.
Terribile e giusta la loro gloria:
indica ai potenti le leggi del diritto,
il civile consenso
per governare anche il cuore dell’uomo,
non chiede compianto o ira,
onore invece di libere armi

davanti alle montagne e alle selve
dove il Lupo e la sua Brigata
piegarono più volte
i nemici della libertà.

La loro morte copre uno spazio immenso,
in esso uomini di ogni terra
non dimenticano Marzabotto,
il suo feroce evo
di barbarie contemporanea.

Peccato che di poesia, oggi, nessuno pare volerne sapere. Se così non fosse, non avremmo perso di vista l’essenza di una ricorrenza come il 25 aprile: e cioè che la libertà ha un prezzo. Che l’oggi è il volto libero di una sofferenza incatenata alla terra. Che ciò che possediamo è stato conquistato, ma non è, e forse non sarà mi abbastanza, consolidato. Prova ne è la disarmante leggerezza con cui la nostra società – e chi la comanda – guarda al passato. Rendendosi protagonista di un ulteriore, bieco insulto al brulicare di quelle vite spezzate. Prova ne è la sinistra analogia con cui, non lontano dai noi, tra rastrellamenti ed esecuzioni sommarie, il medesimo scempio si sta brutalmente ripetendo. Se anche l’approssimarsi alla Liberazione cede ai sentimenti d’odio, da che cosa, in fondo, possiamo affermare di essere liberi?

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