I ragazzi ci sorprendono sempre, specie a scuola, anche in tempi di pandemia. Lo fanno, paradossalmente, proprio quando prendono sul serio noi adulti, mandano in frantumi gli schemi in cui li incaselliamo e lo scetticismo che ogni giorno ci pervade.

Accade persino nell’ultima ora di lezione, alla fine di maggio, quando il prof. si aspetta solo che la fatica sfibrante di un anno trascorso tra baldanzose riprese in presenza e rovinose ritirate in didattica a distanza si trasformi in delusione e, infine, in invincibile noia.

Mentre riprendo l’ultimo autore di letteratura anglo-americana proposto alla mia classe di quinto anno faccio scorrere il powerpoint con i punti nodali di The Catcher in the Rye, Il giovane Holden, di J.D. Salinger.

Flavia è da sempre appostata nelle retrovie. Sin dalla prima classe è stata una ragazzina con una forte personalità, talvolta polemica, sempre impegnata a difendere ad oltranza le proprie strategie di sopravvivenza scolastica e restia a farsi guidare. Certo, è cambiata. Oggi è più disponibile e aperta. La osservo mentre vado avanti con l’analisi del rapporto tra Holden e gli adulti, nel romanzo. Seduta lungo la parete alla sinistra della cattedra, ha gli occhi fissi sullo schermo del tablet davanti a sé. Giro attorno alla fila di centro continuando a parlare. La colgo alle spalle e mi accorgo che sta seguendo gli stessi appunti proiettati sulla LIM della classe. Mi vergogno del mio sospetto.

Torno alla cattedra, continuo a spiegare. Ed accade l’imprevisto: lei si alza e, per seguire meglio la lezione, raggiunge il primo banco vuoto e mi pone una raffica di domande sul testo. Una posizione umana impensabile cinque anni fa. Oggi, vederla in atto è quasi commovente. Termina l’ora.

In sala insegnanti mi raggiunge Davide. Appoggia sul tavolo un taccuino rosso. «Prof, qui dentro ci sono due cose che ho scritto. Ci terrei che le leggesse se ha tempo. Mi vergogno un po’». «È un onore». All’inizio della pandemia Davide aveva espresso tutta la sua angoscia per ciò che si preparava. «Temo che oggi sia come ieri e domani come oggi» aveva confessato facendomi associare le sue parole a quelle di Cesare Pavese ne Lo Steddazzu: «Non c’è cosa più amara dell’alba del giorno/ in cui nulla accadrà» aveva scritto il grande poeta in versi che colgono la radice del dramma dell’uomo moderno.

Anche Davide è cresciuto in questi anni e, nell’ultimo, il viso perennemente corrucciato che lo ha contraddistinto si è allargato e lo sguardo schiarito. Nel taccuino c’è il suo cuore. Cosa troverò?

È uno squarcio di limpida bellezza quello che mi si spalanca davanti. Con un finale insperabile che sembra rispondere all’impazienza e allo scetticismo del grande scrittore Piemontese. «D’immensa amarezza è fatto il sereno» scrive il mio poeta in erba, senza censurare il dolore del travaglio dal quale scaturisce sereno. Non è stato inutile quest’anno.

Fine anno: scade anche l’adozione a distanza sostenuta dalla nostra scuola. Solo che l’eruzione del vulcano Nyiragongo ha raggiunto anche noi. Sì, perché, Sylvie, la ragazza che sosteniamo, abita a 20 km dal cratere e la lava si è fermata, per il momento, a 1 km dalla sua scuola investendo il quartiere in cui vive mentre la nostra amica, in questo momento, potrebbe essere in fuga verso il Ruanda. Nell’ultimo suo messaggio postato su facebook nel giorno dell’eruzione chiede a me e ai miei studenti di pregare per lei. Senza troppa convinzione mi faccio portavoce di questa semplice richiesta e, con maggiore vigore, ricordo loro di portare un contributo in moneta sonante entro domani. Non tanto perché questo possa cambiare la situazione di Sylvie, spiego, ma per noi. Perché l’indifferenza non divori l’umano che c’è in noi nonostante la promozione scolastica. Suona la campana. Perdo tempo a sistemare i libri in borsa. Un gruppetto di alunni mi precede in corridoio. Sono accanto alla finestra, troppo vicini tra di loro. Non va bene. «Ragazzi – li richiamo – rientrate in classe. Mantenete il distanziamento». «Ma prof – ribatte Alessandra divertita- noi stavamo pregando. Non può interromperci così!».

Ed io rimango lì, spiazzato, con i miei schemi in frantumi e lo scetticismo annientato da questa umanità che non smette di debordare non appena viene sfiorata da una proposta che intercettano come adeguata a loro.

Si impara tanto di propri alunni. Per questo quello del prof è il mestiere più bello del mondo, anche al tempo del Covid.

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