Quella giungla panamense dove si consuma un dramma dimenticato
Il fotoreporter Federico Rios Escobar ci fa conoscere un’altra porzione di mondo, di migrazione, di disperazione, di speranza. Penso che per fotografare l’umanità bisogna sentirla dentro, bisogna aver conosciuto la non umanità. E allora lo sguardo si posa senza indugio su ciò che si conosce e non su ciò che è bello, brutto, perfetto o non perfetto. La scena, davanti agli occhi di chi sente l’umanità, è una porzione di verità; quella verità che si fa fatica spesso ad accettare, ovvero quei gesti che inducono alla compassione, al rispetto, all’intenzione di documentare nel “miglior modo possibile” le difficoltà di alcune vite al limite della sopravvivenza. Al limite. Non all’apice della vita. Le porzioni di vita spesso sono poi piccoli gesti: uno sguardo, la piega di un corpo, il ragazzo che massaggia il piede di un uomo adulto con garbo con cura. Banalità, direbbe qualcuno. Ebbene, chi sa vedere queste banalità, chi sa fotografare questi impercettibili attimi lasciandoci nell’immagine la sensazione di un destino, di una infinitesimale porzione di umanità, come Escobar, è uno straordinario fotografo. L’ho scoperto guardando con stupore la mostra “Paths of Desperate Hope/ Le chemin de la dernière chance” quest’anno al Festival di Fotogiornalismo di Perpignan. Lavoro con il quale Escobar ha vinto all’unanimità il 21 giugno 2023 l’Humanitarian Visa d’Or dell’International Committee of the Red Cross (ICRC), incentrato sulla migrazione di migliaia di persone che attraversano il Darién Gap l’ultima regione a sud di Panama prima di arrivare in Colombia.
«Sono un fotografo colombiano – mi racconta durante il nostro incontro a Perpignan – e ho iniziato a fotografare più di 20 anni fa. Ho iniziato a documentare l’America Latina circa otto anni fa, quando alcuni venezuelani hanno iniziato a lasciare il proprio paese per andare in Colombia o nel sud del Brasile e ho camminato con loro più volte. Nel 2021, mentre mi trovavo ad Haiti per documentare lo stato di emergenza, seguito all’assassinio del presidente Jovenel Moïse, ho saputo che migliaia di persone stavano attraversando il Darién Gap, la fitta giungla a sud di Panama. Fino ad allora, nei dieci anni precedenti, dal 2010 al 2020, erano circa 10.000 le persone che ogni anno si avventuravano in questa impresa disperata. Dopo quanto accaduto ad Haiti, il numero è aumentato fino a 50.000, in gran parte proprio haitiani. Ho attraversato la giungla con loro, spesso accompagnando intere famiglie con bambini. In una città puoi anche fare 40 km al giorno ma nella giungla è tanto se riesci a farne 8. È molto pericoloso: il cammino è ripido e molto fangoso e spesso c’è molta pioggia. La natura è molto pericolosa. Se attraversi il fiume mentre l’acqua sale può trascinarti e ucciderti. Molte persone sono morte così. Una traversata pericolosa dove molti non ce la fanno e dove chi può cerca di aiutare il più debole».
Alcune delle tue foto ritraggono persino dei profughi afghani. Pochi sanno, infatti, che negli ultimi anni il Darièn Gap si è trasformato in una frontiera globale. Come fanno ad arrivare?
«A passare inosservati, tra coloro che attraversano questa striscia di terra, sono anche le moltitudini che giungono da Africa e Asia come nepalesi, cinesi e mauritani. Molti di loro prendono l’aereo fino a dove è consentito. Chi ha un passaporto cinese, ad esempio, spesso atterra in Ecuador e, da lì, viaggia in autobus fino alla Colombia e attraversa il Darièn a piedi. Gli afghani, invece, vanno “via strada” verso l’Iran o la Turchia, poi volano fino in Qatar e per arrivare, infine, Brasile. Dal Brasile attraversano tutto il continente fino alla Colombia in autobus per poi attraversare per 6-7 giorni la giungla. È devastante e difficile anche per un uomo giovane che ha svolto lavori fisicamente impegnativi».
Quando hai iniziato a fotografare? In che modo la tua passione si è trasformata in un mestiere?
«Ho iniziato quando ero molto giovane perché ho pensato che era il mio strumento per comunicare con la gente. Avevo 6 anni. Adesso vivo a Medellìn, ma sono nato in un piccolo villaggio in Colombia. Mio padre era molto povero quando era giovane, estremamente povero. In qualche modo riuscì ad andare all’università, era super intelligente e ha lavorato molto duramente. Fu proprio lui a regalarmi la mia prima macchina fotografica, una Kodak molto, molto economica. Fu sempre a lui a convincermi a stampare le prime foto che portai in classe e che mi fecero diventare popolarissimo. Mi resi conto che la classe era interessata a me e alla mia vita grazie alle fotografie. L’inizio della mia carriera è stato un po’ travagliato dal momento che, come molti genitori sudamericani, anche i miei avrebbero voluto che “diventassi qualcuno”. Così quando comunicai a mio padre la mia intenzione di scattare foto per guadagnarmi da vivere non ne fu affatto contento. Finii per studiare giornalismo e comunicazione, concentrandomi però sulla fotografia. I miei primi scatti trovarono spazio su dei giornali locali: avevo così tanto lavoro che non riuscivo più a frequentare la scuola: decisi così di diventare un fotografo a tempo pieno».
Come dimostrano i tuoi scatti in mostra oggi, il tuo stile è ben lontano da quanto solitamente si trova sui quotidiani. A quando risale la svolta?
«Dopo alcune esperienze in giornali nazionali, mi resi conto che le “daily news” non mi emozionavano più. Così nacque il mio primo importante lavoro fotografico. Nel 2009 iniziai a documentare le “urban gangs” a Medellìn, adottando una prospettiva diversa, più attenta all’aspetto umano. Li convinsi a farsi ritrarre nella loro vita quotidiana e a non uccidermi. È stato molto impegnativo e ho trascorso anni a documentarli».
Per più di 10 anni tu hai fotografato i guerriglieri delle FARC nella giungla della Colombia, documentando la loro vita quotidiana durante gli anni degli accordi di dialogo con il governo; le marce, le tensioni, le relazioni amorose, i disaccordi, la deposizione delle armi, alcuni dei risultati del processo di pace e il loro inizio nella vita civile. È stato quindi difficile ma ciò che emerge dai tuoi lavori è il fatto che non giudichi, non sei un giudice. Tu riprendi una certa realtà.
«Come nel mio lavoro sulle gang, anche con le FARC – uno dei più grandi e più antichi gruppi di guerriglia del mondo – la mia intenzione era quella di ritrarre il lato umano degli individui. Chi fa parte di queste organizzazioni non è semplicemente un sicario, ma anche molte altre cose: un ragazzo, un amico, un marito, un figlio, un fratello. La mia domanda non è “perché lo fai?”. In questi lavori ho, prima di tutto, cercato di comprendere queste strutture sociali. Di conseguenza è stato di fondamentale importanza trascorrere del tempo con loro, senza giudicarli».
E pensare che il Darién scatenò la fantasia di Salgari con “Gli ultimi filibustieri” attingendo alle imprese dei veri pirati che dal Perù trasportavano oro e argento. Forse già allora erano le storie d’amore a nascondere l’umanità già devastata da sete di potere e di ricchezza.