Il teatro underground di Deflorian/Tagliarini è approdato al Centro Zo di Catania per la rassegna “AltreScene”, con il racconto della vicenda di una casalinga polacca interessata da una strana routine apparentemente piatta – quella di annotare meticolosamente su un diario tutti gli avvenimenti che la riguardano – ma in realtà densa di tragedia e spunti di riflessione

Come s’interpreta un morto a teatro? In che modo si mantiene lo sguardo vitreo quando si è costretti a restare in scena a lungo? E se i capelli ti finiscono sull’occhio e il peso del corpo sul braccio? Tutti ragionamenti fatti da vivi costretti a interpretare qualcuno che ha lasciato il proprio corpo per passare a miglior vita. È con questa serie d’interrogativi che i due interpreti, registi e autori, Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, fanno iniziare Reality. Il termine, reso famoso negli ultimi decenni come abbreviazione di un genere televisivo dilagante sulle reti private e non, qui indica la volontà di raccontare episodi di vita vissuta che costituiscono la rete drammaturgica della pièce. Infatti, a dispetto di quello che si possa credere questo format televisivo nasce già negli anni ‘20 come filone documentaristico; uno degli esempi più importanti è rappresentato nel 1945 da Queen for a Day, un programma trasmesso dalla radiotelevisione americana in cui diverse donne venivano intervistate sulle loro vicende drammatiche personali e in cui il pubblico, attraverso un applausometro, esprimeva il proprio indice di gradimento.

VITA DA REPORTAGE. Partendo da un’inchiesta di Mariusz Szcygiel, giornalista e scrittore polacco, pubblicata in Italia da Nottetempo, la coppia Deflorian/Tagliarini ha dato vita a questo progetto teatrale sui generis – andato in scena al Centro Zo di Catania per la rassegna AltreScene che indica la cifra stilistica dei due, di un teatro dalle forti tinte underground in cui trovano spazio figure atipiche. Un racconto che procede per spezzoni, in avanti e indietro nel tempo e in cui si raccontano gesti semplici di una donna qualunque. Janina Turek è una casalinga di Cracovia che giornalmente annota su un diario, in maniera del tutto asettica, gli eventi della sua vita, di quella quotidianità spicciola e meccanica a cui nessuno presta spesso attenzione. Dopo la morte della donna, stroncata da un infarto l’11 novembre del 2000, la figlia Ewa Janeczek aprendo un armadio di casa trova una pila di quaderni: sono 748 in tutto, scritti con lo stesso inchiostro blu scuro, la stessa calligrafia, senza cancellature, usando solo la parte destra del diario. 33 categorie, ciascuna dedicata a un tema: c’è quello delle colazioni (4.463), delle cene (5.986), delle telefonate (3.819), delle volte in cui è andata a teatro (110), dei libri letti (3.817), l’ultimo dei quali “Lolita” di Nabokov, e ancora delle visite annunciate e di quelle non annunciate, delle persone viste di sfuggita, dei regali ricevuti e fatti, tutto analizzato in maniera millimetrica. Ogni cosa che Janina vedeva veniva registrata, ma è solo ciò che la riguarda, la sua realtà, a interessarle davvero. Sessant’anni di dati, di numeri che con il passare del tempo si assottigliano sempre più, perché le gite, le telefonate, le uscite di Janina Turek diventano sempre più rade nel tempo trascorso davanti alla televisione a vedere 70.042 programmi o a scriversi cartoline (3.000).

Una foto di scena di Reality, con Deflorian e Tagliarini
Daria Deflorian e Antonio Tagliarini durante lo spettacolo

UMANA FRAGILITÀ. Pochi elementi scenici: un tavolino, una poltrona e diversi oggetti che dal lato sinistro vengono srotolati sul palcoscenico e poi di nuovo ricollocati. Oggetti accatastati in attesa di essere usati fra il bagliore dei proiettori, disseminati sulla scena da due attori che con semplicità ridonano colore a un’esistenza grigia. Mentre Antonio Tagliarini, forte del suo background da performer, lavora molto sul corpo cercando anche un contatto diretto con il pubblico, Daria Deflorian, con la sua gonna turchese piena di fiori vistosi e il cardigan abbottonato, usa la parola e un’intonazione lineare per raccontare un’esistenza ai margini dell’anonimato. Al di là di un aspetto chiaramente patologico celato dietro a questa ritualità, forse una forma di ossessività scatenata dal trauma della guerra, difatti non va dimenticato che la Turek si approccia alla scrittura quando il marito ritorna da Auschwitz. A emergere è l’esigenza di una donna, madre e moglie, che vuole rendere note le sue giornate a un ipotetico lettore, la necessità di farsi spiare dall’occhio di un Grande Fratello immaginario per avvalorare l’idea che anche l’esistenza più normale può essere segnata dall’eccezionalità. Uno spettacolo che punta più a una riflessione sull’essere umano e sulle sue fragilità che su un impatto immediato, in cui il plot strizza l’occhio al teatro di parola e in cui si sperimentano nuovi percorsi registici.

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