Richard Avedon: una vita di ritratti a caccia di illusioni
Sono trecento gli scatti attraverso cui il fotografo americano racconta, nella sua autobiografia, la sua visione di un’arte per la quale ancora «non esiste un vocabolario adatto». I volti dei divi del cinema si sovrappongono a quelli delle gente di strada, da Napoli al profondo Sud americano, in una perenne ricerca di senso sospesa tra finzione e realtà
Cosa rende speciale una persona? Cosa ha reso speciale Richard Avedon? L’energia è ciò che rende speciale. L’energia vitale per intrufolarsi nella vita con il coraggio necessario per annusare come è fatta la nostra esistenza. Richard Avedon aveva energia da “vendere” come dimostra nel libro Un’autobiografia Richard Avedon. Dal vocabolario Treccani energia è: “vigore fisico, fermezza di carattere, forza dinamica dello spirito, nella filosofia di Aristotele, l’atto o principio determinante e attuante, in contrapposizione alla materia o principio determinabile e potenziale”…e molto altro ancora.
Avedon possedeva già dentro di sé l’immagine in potenza così come l’immagine era il seme che maturava dentro alla sua mente. Il suo unico linguaggio era la fotografia che lo accompagnava sempre, come un taccuino per uno scrittore o un libro delle preghiere per un sacerdote, con l’intenzione di scardinare, catturare, arrestare la vita.
Perché Avedon in questo fine anno? Per la sua complessità, per la sua feroce dolcezza ad inseguire la vita che si srotola spesso senza comprensione. Perché la bellezza della vita, come in Jano, è la testa che si contrappone all’orrore della morte.
Il libro, scrive Avendon: «traccia il sentiero di tre illusioni fondamentali della mia vita: la prima sezione riguarda l’illusione del riso e la scoperta da parte di un ragazzo della linea sottile tra ilarità e panico. La seconda sezione riguarda l’illusione del potere. La terza sezione riguarda la perdita di ogni illusione». Per tracciare i suoi tre sentieri Avedon usa circa trecento ritratti in bianco e nero in un libro dal grande formato di circa ventisette per trentacinque centimetri. Sono tutte stampate con una qualità straordinaria dove la gamma dei grigi e dei neri fa sì che ogni ritratto sembri vero, sembri fuoriuscire dalle pagine.
È curioso come questo libro conferma la posizione di Avedon sulla fotografia che «non è reportage, non è giornalismo ma è finzione. Quando io vado nel West e fotografo la working class, quella è la mia visione. Come per John Wayne sono i film di Hollywood. Quindi questo vuol dire che la mia idea riguardo la classe lavoratrice è una finzione …ho creato senza nessuna idea di come avrei fotografato o di chi avrei fotografato».
Le sue illusioni sono finzioni? Sono il suo sguardo che riprende ciò che lui intende riprendere, senza falsità, senza inganno. Allora se questo è quello che noi vediamo sono le sue finzioni.
Le immagini, in tutte le sezioni, si alternano tra personaggi noti del mondo dello spettacolo, della moda, della cultura a quelli di persone di strada o di familiari: dal 1947 al 1989. La vita di strada a Napoli, a Roma si alterna ai ritratti di attori e registi famosi come ad esempio John Huston e Marilyn Monroe. Il ritratto di un giovane ad Harlem si contrappone a quello del pittore De Kooning. Avviene anche di vedere accostamenti che generano un pugno nello stomaco come il ballerino Hugh Laing (1948) accanto ad una donna legata ad un letto nello “State Hospital” della Louisiana (1963) così come il corpo della giovane donna (forse la sorella) seduto sul letto dello stesso ospedale psichiatrico con la testa inclinata ad inseguire con la mano i suoi devastanti pensieri, si accosta allo stesso smarrimento – questa volta creativo – del pianista Oscar Levant (1972). Il volto del padre di Avedon appare in ogni sezione così come un suo autoritratto: “nel nome del padre del figlio” sembrano recitare queste immagini come una preghiera di non abbandono per testimoniare il desiderio di essere vivi: sempre! Anche quando si è morti.
Come non rimanere sconcertati dal movimento della modella incappucciata Jean Shrimpton a Parigi nel gennaio del 1970 che sembra fuggire dall’orrore di colei che compare nella pagina a fianco la donna vittima del napalm di Saigon in Vietman nel 1971.
I ritratti si contraddistinguono per l’energia, lo smarrimento, il movimento, la tristezza, la gioia, l’ambiguità, l’abbandono, la paura, la sfida, la curiosità e tutti quegli atteggiamenti che esprimono una parte di noi stessi: la reale finzione di quel momento che Avedon ha voluto mettere in scena.
Questa altalena continua di come si è, come si è stati, di presente e di passato è la restituzione del suo pensiero: «In termini visivi non c’è stato nulla come la fotografia nella storia del mondo. Non esiste un vocabolario adatto… la fotografia ferma letteralmente qualcosa di morto: è la morte del momento. Nell’attimo in cui viene scattata una foto la vita viene trattenuta e bloccata. E quel momento è superato».
La moda che ha reso celebre Avedon in questo libro sembra il corollario di un’esistenza ricca di sguardi continui incessanti dentro e fuori di sé. Fotografa come Arbus l’atrocità della vita con la differenza che ogni volta riemerge con la sua energia aggrappandosi alla bellezza. Avedon riprende con la sua gamma infinita di grigi le tonalità più buie e più luminose della vita: vive di contraddizioni. Una certezza Avedon però l’ha sempre manifestata: «A great joy in the life is watching light. Una grande gioia nella vita è vedere la luce».