«Mi affascina molto il rapporto con il mito. E cosa c’è di più mitico dell’Etna che tira fuori fiumi di fuoco? Credo che coloro che ci vivono sotto siano particolarmente siciliani perché se la giostrano col destino più di chiunque altro. Perciò per questa mostra avrei voluto fare una cosa speciale sull’Etna, ma non sono stato all’altezza. Volevo fare “Sotto il Vulcano” come Malcolm Lowry e invece mi trovavo all’hic et nunc dei fatti, delle eruzioni, per cui alla fine ho scelto un solo scatto di una colata. È qui per dare un segno catanese alla prima monografica sulla Sicilia che propongo in un’isola che ho sempre cercato in ogni lavoro che ho fatto: qualcosa di molto peculiare, dal quale si fugge persino, ma di cui non puoi fare a meno tutta la vita. E che continui a cercare nella memoria dovunque tu vada». 80 scatti, quanti gli anni che compirà il prossimo 4 luglio, sono quelli che Ferdinando Scianna propone a Catania nella mostra Ti ricordo, Sicilia – curata da Paola Bergna e Alberto Bianda, art director, promossa e prodotta dal Comune di Catania e Civita Sicilia – visitabile fino 20 ottobre al “Castello Ursino” di Catania (aggiornamento del 16/10/2023: la mostra è stata prorogata fino al 5 novembre 2023). Non un percorso, ma un’immersione nei lavori di uno degli intellettuali più significativi del nostro tempo che, incontrato durante l’allestimento, ci ha raccontato della sua idea di fotografia ripercorrendo alcune tappe fondamentali compiute in oltre 60 anni di attività.

ERUZIONE DELL’ETNA, 1983 © Ferdinando Scianna

Tra le prime foto che accolgono il visitatore in questa mostra ce ne sono alcune confluite in “Feste religiose in Sicilia”, il suo primo libro realizzato con Leonardo Sciascia nel 1965. Che ricordo ha di quella pubblicazione?
«Ai tempi ero terribilmente ignorante e anche un po’ snob, in quanto scelsi di ignorare le feste di Santa Rosalia e Sant’Agata, ritenendole troppo codificate, quasi urbane, mentre a me interessavano quelle dei paesi. In realtà in seguito mi pentii di questa scelta, ma era troppo tardi: quando ebbi l’occasione di tornare in Sicilia, una decina d’anni dopo tutto era cambiato e alle feste c’erano più fotografi che processionanti. Ad ogni modo, il libro è stato il mio punto di riferimento per tanti anni. I testi di Sciascia suscitarono molte polemiche perché descrivevano una religiosità molto materialista, del tipo “io ti offro dei doni e tu mi guarisci la vacca”, che fece inferocire un certo cattolicesimo. In tutto questo io mi pigliavo la mia parte di botte, non senza esserne soddisfatto perché con quel lavoro cercavo di dare un senso politico di rivendicazione della cultura popolare come ipotesi di una trasformazione del mondo».

Il suo rapporto con Sciascia è anche documentato da alcune foto personali inserite in questa mostra.
«Leonardo era per me padre, amico, persino finanziatore, in tanti casi, e poi era maestro. Non l’ho mai fotografato professionalmente e ciascuna foto che gli ho fatto in 26 anni fa parte degli album di famiglia: ai compleanni delle mie figlie, in viaggio insieme, a casa sua. Da 30 anni cerco di farci un libro, che a un certo punto ho addirittura finito. Ma poi, ripensando alla ricchezza del nostro rapporto, l’ho trovato troppo povero. Forse un giorno lo pubblicherò oppure lo farà qualcun altro dopo che sarò morto. Intanto però non potevo organizzare una mostra sulla Sicilia senza parlare di lui».

«Cartier-Bresson sosteneva che il fotografo doveva essere invisibile e io invece chiedevo alla modella di mettersi in posa. Credevo che sarei andato all’inferno per questo, ma alla fine ho realizzato che le foto sono sempre trovate»

Ferdinando Scianna

In seguito alla pubblicazione di quel primo volume a metà degli anni ‘60 lei scelse di trasferirsi a Milano per proseguire l’attività di reporter. Alcuni anni dopo, poi, si recò a Parigi dove incontrò Cartier-Bresson che le propose di entrare nella prestigiosa Magnum Photo. Come andarono le cose?
«A Milano la mia Bohème è stata cortissima, perché pochi mesi dopo essermi trasferito venni assunto a L’Europeo. Allora usavo il libro come passaporto, ma non avevo nessuna esperienza e di fatto imparai andando in giro con i giornalisti. Cartier-Bresson era il mito che poi il caso ha voluto che lo incontrassi quando il direttore decise di mandarmi come corrispondente a Parigi. Dovevo rimanerci due anni, che divennero dieci nei quali con lui nacque una vera amicizia. Poi, quando decisi di lasciare il giornale e rientrare in Italia mi disse: “Avevi il tuo mestiere e non ti ho detto niente, ma adesso ti invito a presentare la tua candidatura a Magnum”.  E io lo feci perché me lo propose lui, altrimenti non avrei mai avuto il coraggio di farlo. Probabilmente a quel punto rientrare a Milano non fu una scelta molto saggia, ma da lì ho ricominciato a fare quello che avrei voluto quando sono partito da Bagheria, ovvero il fotografo indipendente. E mi arrivarono anche offerte inaspettate, ad esempio a un certo punto mi hanno proposto di fare delle foto di moda». 

Ferdinando Scianna durante l’allestimento della mostra a Castello Ursino CT © Ph. Antonio Gerbino

In questo senso, la mostra di Catania mescola ai suoi reportage alcuni scatti della modella Marpessa Hennink. Ma la fotografia di moda non è qualcosa di molto differente dal reportage?
«All’inizio ero sconcertato. A cercarmi furono due stilisti, Dolce e Gabbana, che ai tempi erano ancora sconosciuti, tanto più a me. Mi dissero che avevano visto delle foto mie della Sicilia e che avrebbero voluto fare un catalogo con uno che non fosse fotografo di moda. Il che era anche un’idea di marketing abbastanza interessante, ma io avevo in sospetto quel mondo, che consideravo una cosa superficiale e borghese. Poi però lo approcciai da reporter, inserendo la modella nel contesto della vita, per giunta in Sicilia, e questo mi offrì anche la possibilità di realizzare una sorta di ricostruzione della mia idea della donna. Il risultato fu un successo che né io né Dolce e Gabbana ci aspettavamo. In seguito feci molti scatti per la moda, ma dovetti fare i conti con i miei pregiudizi, che erano non tanto ideologici quanto formali. Cartier-Bresson sosteneva che il fotografo doveva essere invisibile e io invece chiedevo alla modella di mettersi in posa. Lo trovavo un peccato mortale e credevo che sarei andato all’inferno per questo, ma intanto mi divertivo da pazzi. Alla fine, però, ho realizzato che le foto sono sempre trovate. Per cui oggi non faccio alcuna differenza e ho considerato naturale inserire delle foto di Marpessa su una mostra che riguarda la Sicilia».

«Un fotografo cerca un istante nel quale il fatto che avviene, l’emozione che ti provoca e la forma che assume quel fatto nelle relazioni di linee, toni e altre cose fotografiche diventa materia prima»

Ferdinando Scianna

Lei sostiene che le foto sono sempre trovate. Ma il fotografo l’istante deve ricercarlo o aspettarlo?
«Non è facile rispondere a questa domanda. Robert Frank, grandissimo fotografo, dichiarò di aver smesso di fotografare perché era molto faticoso passare tutta la vita ad aspettare che Dio facesse capolino da dietro l’angolo. Il fatto è che l’istante arriva perché lo cerchi, ma non basta cercarlo affinché arrivi. Quindi è qualcosa che, perlomeno nel reportage, ha a che fare anche con il caso. Un fotografo cerca un istante nel quale il fatto che avviene, l’emozione che ti provoca e la forma che assume quel fatto nelle relazioni di linee, toni e altre cose fotografiche diventa materia prima. È per questo che si fanno tante foto sbagliate. Io ne ho fatte più di un milione e 200 mila, ma credo che il 98% non siano buone, almeno nell’accezione di Cartier-Bresson, che diceva che non c’è una foto quasi buona: o è buona o non è buona».

Che ruolo hanno la tecnica e il talento in questa equazione?
«La tecnica è fondamentale, ma devi impararla per poi dimenticarla. È un po’ come guidare la macchina: la prima volta coordinare i pedali, la frizione, l’acceleratore è complesso, ma una volta imparato non ci pensi più e decidi semplicemente: ora vado a Siracusa. Così è la fotografia, che va cercata e che si fa con i piedi. Il talento, invece, è un altro mistero. Perché vengo a mangiare al tuo ristorante piuttosto che altrove? Perché vuol dire che hai il talento di mettere insieme gli ingredienti per fare dei piatti migliori degli altri, anche se tutti siamo più o meno cuochi poi alla fine la migliore caponata è quella che faceva tua madre. Ma il talento è una cosa che gli altri ti riconoscono. Quasi sempre se pensi di averlo in realtà sei un cretino e non ce l’hai».

L’allestimento della mostra a Castello Ursino CT © Ph. Antonio Gerbino

Il pianista Thelonious Monk parlava di errori giusti ed errori sbagliati. Anche secondo lei è così?
«Credo che qualunque pratica, come la scrittura, la pittura o la fotografia, abbia una tradizione, alla quale ti riferisci in maniera consapevole o inconsapevole. Però poi c’è quella petit musique che aggiungi e che spesso entra attraverso l’errore. Spesso è così che nascono le innovazioni. Adoro Glenn Gould e quando suona Bach non ci sono confronti, però quando ascolto le sue incisioni delle sonate di Haydn credo le meccanizzi fino al punto di farmi pensare che sia un errore, perché diventa troppo Gould e poco Haydn. Chiaramente qui siamo a livello di interpretazione. E io non credo che il fotografo sia altro che un interprete. Egli non costruisce la realtà ma la legge. E lo fa così velocemente, al punto che continuamente sbaglia. Gli errori? Alcuni sono letali: se metti troppo sale nella caponata non la puoi mangiare, ma il fatto che nel palermitano non ci si metta il peperone e che invece lo si faccia nella parte orientale dell’isola non lo è. A me piacciono tutte e due».

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