«C’è un’irriducibile distanza tra il modo in cui vengono espresse le norme giudiziarie studiate nei libri universitari, e di conseguenza le ordinanze, e i corpi dei detenuti chiusi in carcere. La verità delle cose non è nelle parole che le indagano, ma nella loro superficie, nella loro visibilità, in ciò che rivelano a uno sguardo che non teme di fissarle». Con questa affermazione Adolfo Ceretti, professore di Criminologia presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca, ha introdotto uno dei temi centrali del convegno “Verso una giustizia riparativa”, svoltosi nell’Aula Magna del Palazzo Centrale dell’Università di Catania sabato 18 febbraio. L’evento si colloca nel ciclo di incontri “Oltre la pena. Incontrare persone. Ricomporre relazioni” promosso dalla Fondazione Francesco Ventorino, dall’Arcidiocesi di Catania, dal Centro Culturale di Catania e dalla Fondazione Sant’Agata. Al dibattito hanno preso parte anche il Magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Catania Francesco Priolo, l’arcivescovo di Catania monsignor Luigi Renna, il già Prefetto della Repubblica Claudio Sammartino, il Professore di Diritto Processuale Penale presso l’Università degli Studi di Catania Fabrizio Siracusano e il volontario della Fondazione Francesco Ventorino Alfio Pennisi, intervenuto come moderatore.

OLTRE LA TEORIA. «Durante la preparazione della mia tesi di laurea – ha proseguito Ceretti – avevo letto molti libri, ma nessun testo può valere quanto un’esperienza, quanto vedere fisicamente un detenuto o una vittima». Ed è grazie ai suoi trascorsi come giudice onorario del Tribunale per i Minorenni e come componente esperto del Tribunale di Sorveglianza di Milano che il docente ha potuto constatare con i propri occhi come il sistema giudiziario non tenga conto del rapporto tra vittima e carnefice, considerando quest’ultimo soltanto come un individuo a con cui relazionarsi in maniera assertiva in risposta al suo crimine. «Per me –  ha affermato Ceretti – la vera giustizia è quella riparativa, di cui si scrive per la prima volta nell’art. 1 della riforma Cartabia. Essa va intesa come la libera partecipazione della persona rea alla risoluzione delle questioni derivanti dal suo reato insieme alla vittima grazie all’aiuto di un mediatore». Una posizione condivisa dall’Arcivescovo mons. Luigi Renna: «L’espiazione della colpa non deve essere vista più in ottica medievale come una punizione che intende riprodurre nel reo la stessa sofferenza della vittima. Il concetto di giustizia retributiva, presente anche negli Atti di Sant’Agata con Quinziano, che annegando nel Simeto si vede restituito il dolore che ha generato in Agata, va sostituito da quello di giustizia riparativa».

MEDIAZIONE ED EQUIPROSSIMITÀ. Centrale, nello sviluppo di questa dinamica, è la figura del mediatore: «Questi – ha spiegato Ceretti – è una persona appositamente formata per fare da collante tra il reo e la vittima in una posizione di equiprossimità, termine bellissimo introdotto nella giustizia italiana: essere equiprossimo tanto verso il colpevole quanto verso la vittima significa garantire uno spazio equo a entrambi. Così si può raggiungere la mediazione, che prima di essere un incontro tra persone è un incontro tra volti nudi senza difesa, i cui occhi faticano a rintracciarsi finché non sentono di poter sostare nello sguardo altrui». Un incontro che è fatto anche di parole non dette: «Vittime e carnefici – ha concluso il docente – si chiudono in uno stato di caos, poiché ogni reato mette in subbuglio i sentimenti di chi lo commette e di chi lo subisce. Il primo vive un senso di rancore per l’incurvatura che la sua vita ha assunto al punto da portarlo in carcere, il secondo si sveglia ogni mattina provando rancore verso il carnefice. Il mediatore, consapevole della diversità di ognuno e disposto ad accettarla, deve essere in grado di abbattere quel muro tra rei e vittime, aiutarli a uscire dal solipsismo in cui si sono condannati e aprirli al dialogo».

IL RUOLO DELL’ISTRUZIONE. La realizzazione nel concreto del concetto di giustizia riparativa non può prescindere da iniziative che promuovano la riabilitazione e il reinserimento dei detenuti in società. Ne è un esempio la Casa Livatino, gestita dalla Fondazione Francesco Ventorino, in cui vengono accolti detenuti con pene alternative alla carcerazione o neo-dimessi rimasti senza un luogo in cui risiedere. Ma anche i percorsi di istruzione approntati dall’Università di Catania e volti a fornire ai detenuti un bagaglio di conoscenze indispensabili ad un effettivo reinserimento. A sottolineare l’importanza dell’iniziativa è il Magnifico Rettore Priolo: «Già dallo scorso anno il nostro ateneo ha dato la possibilità ai detenuti interessati a intraprendere un percorso universitario: nel 2022 avevamo 46 studenti, mentre oggi sono 73. È da queste piccole gocce che si può formare il mare». Gli fanno eco le considerazioni del professore Siracusano: «La pena dovrebbe essere un volàno di socializzazione e rieducazione sociale al fine di reintegrare il detenuto. In tal senso, la cultura è uno snodo cruciale per rendere effettivo questo cambio di paradigma». Una tematica dal forte impatto sociale, soprattutto in una realtà complessa come quella della città etnea, nella quale l’istruzione può giocare un ruolo decisivo anche nella riduzione dei fenomeni devianti: «Sappiamo – ha affermato Claudio Sammartino, che ha fortemente voluto l’istituzione di un apposito osservatorio contro tali fenomeni negli anni in cui ha ricoperto la carica di prefetto – quanto Catania sia afflitta dalla criminalità minorile e dalla dispersione scolastica. La mancanza di istruzione genera criminalità, per questo è fondamentale il lavoro di volontari e non solo all’interno delle carceri: ogni persona recuperata è un posto di lavoro in meno nelle organizzazioni criminali. “Mai privare qualcuno del diritto di ricominciare” affermava Papa Francesco nel 2019. Oggi è difficile sperare che qualcuno possa ricominciare, sperare in un cambiamento, dentro e fuori le carceri, come testimoniato dall’assenteismo alle urne, ma dobbiamo farlo. Bisogna organizzare la speranza con un impegno sociale e politico e ricomporre i tessuti della società».


IL PROSSIMO APPUNTAMENTO PER “OLTRE LA PENA”Il ciclo Oltre la pena si concluderà sabato 25 febbraio alle ore 16.00 al Palazzo della Cultura di Catania, presso il quale si svolgerà la presentazione del libro La crepa e la luce di Gemma Calabresi Milite. L’incontro sarà moderato da Anna Sortino, presidente del Centro Culturale di Catania.

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