C’è una trappola pronta a scattare per Giovà, guardia giurata di Partanna Mondello. La sorella Mariella ha dato in affitto il «villino» di sua proprietà. Purtroppo i due affittuari trovano scuse e pretesti (non del tutto infondati) per non pagare il canone e ciò scatena in famiglia la consueta tragedia farsesca. La madre Antonietta, la zia Mariola, la vicina Mariangela e persino il padre infermo spingono Giovà a fare qualcosa, qualsiasi cosa, quando un fatto ben più grave si aggiunge al danno morale e a quello economico. Gli affittuari, i sedicenti fratelli Mormile, sono caduti in un agguato e Mariella è stata fermata dalla polizia scatenando oltretutto una ridda di maldicenze. Lo stile del duplice omicidio è quello classico mafioso, eppure è proprio lo Zzu, il boss della borgata, a dare ordine a Giovà di fare chiarezza.

Giovanni “Giovà” Di Dio è l’ultima persona a cui chiunque penserebbe di affidare delle indagini. Goffo, privo di inventiva e anche un tantinello presuntuoso, è diametralmente lontano dal profilo del classico investigatore da piccolo schermo. Eppure sembra che tutte le disgrazie e le situazioni ingarbugliate gli si parino davanti senza lasciargli scampo. Ed è così che, ancora una volta, questi si ritrova protagonista della scrittura di Roberto Alajmo, in questo caso di La boffa allo scecco, ultima fatica dello scrittore palermitano edita di recente da Sellerio. Con lui abbiamo chiacchierato per scoprire in che cosa risiede il successo di un personaggio così anticonvenzionale.

LE DISAVVENTURE DI UN METRONOTTE. «La boffa allo scecco – spiega l’autore a proposito del titolo – è un’espressione solo siciliana, addirittura solo. La boffa è lo schiaffo e lo scecco è l’asino. Dietro c’è una storiella di un contadino che prendeva schiaffi da chiunque, dal padrone, dalla moglie, dagli amici. Era l’ultima ruota del carro. L’unico suo sfogo era quello meschino di scaricare le sue frustrazioni sull’asino dandogli uno schiaffo alla fine della giornata. Il modo di dire sta quindi ad indicare l’azione, per sfogo, di prendersela con qualcuno che non c’entra niente e non può difendersi. Mi è sembrato un carattere adatto a descrivere il mio personaggio Giovanni Di Dio, “Giovà”, ormai protagonista di tre avventure, tutte involontarie, che gli capitano per disgrazia, in cui si trova a fare l’investigatore, lui che non ne ha nessuna qualità. Non ha le intuizioni del detective, non ha i galloni perché la divisa che porta è quella da metronotte. Ha tutta la prosopopea di una forza dell’ordine, pur non essendo affatto una forza dell’ordine». Il tutto in una città che con le sue peculiarità appare quasi come un personaggio a sé stante: «Palermo è uno scenario grottesco di per sé, senza bisogno di caricarlo più di tanto. Definirla contraddittoria sarebbe una banalità. È una delle poche città teatro in cui non c’è bisogno di inventare tanto per scrivere un libro. Basta sedersi sul ciglio di una strada e aspettare che il teatro si venga a svolgere davanti i tuoi occhi. Tutte le mie storie nascono da uno spunto di realtà. Non c’è bisogno di fare tutti questi sforzi di fantasia, il disegno lo trovi già là. Poi ci devi mettere un po’ di colore e il gioco è fatto».

«In alcune aree della città
manca quella che chiamo un’alternativa.
Lo stato ha fatto un passo indietro
e sul campo sta perdendo la battaglia»

LA GIUSTIZIA COME CAMPO DI BATTAGLIA. Ed è proprio a causa di questo surreale gomitolo che il protagonista, in un misto di ingenuità ed estraneità, si ritrova a capitombolare in un vortice di eventi più grande di lui, che progressivamente si svela a lui come al lettore: «Giovanni finisce per fare indagini improprie per conto di chi rappresenta il suo quartiere, vale a dire il contro stato. È un rovesciamento integrale dell’investigatore che lavora per la giustizia. Lui infondo si trova costretto a lavorare per l’ingiustizia. Ed è il rappresentante di una classe sociale che è sostanzialmente una piccola borghesia, che spesso sfugge ai radar della sociologia e si trova a galleggiare fra lo stato e il contro stato. In certi quartieri, del resto, lo stato è un’entità lontana e percepita come ostile, mentre la sua controparte è molto incombente e mantiene sul territorio una forma di controllo serrata». Quartieri che, nelle loro contraddizioni, non sfuggono certo all’occhio di Alajmo, che a lungo si sofferma ad analizzare il loro profilo e il loro ruolo all’interno di realtà così complesse: «Sono dell’idea – afferma – che bisogna osservarli in maniera fredda, entomologica, scientifica. Non gli si può chiedere retoricamente il coraggio di ribellarsi. Devono essere messi di fronte a un’alternativa, che sia però vera. Quella che secondo me nei quartieri di Palermo non c’è. Lo Stato ha fatto un passo indietro, e la mafia è quel liquido che prende il suo posto insidiandosi in tutto lo spazio che trova. È come un minuetto. In mezzo c’è poi una quota di popolazione capace di far pendere la bilancia da una parte o dall’altra, e di fatto su questo territorio lo Stato sta perdendo la sua battaglia. Io, da parte mia, mi sforzo di raccontare con le armi del poliziesco questa realtà in cui la battaglia fra la cosa pubblica e cosa nostra viene vinta sul terreno abbondantemente da Cosa Nostra proprio per il ritiro del concorrente. Ed è esattamente questa distorsione che il mio libro cerca di raccontare».

Il nostro impegno è offrire contenuti autorevoli e privi di pubblicità invasiva. Sei un lettore abituale del Sicilian Post? Sostienilo!

Print Friendly, PDF & Email