«La fotografia totale racconta la storia dell’uomo, il rapporto con se stesso, con il prossimo e la società in cui vive». Ironico e rivoluzionario, Romano Cagnoni, nato a Pietrasanta, in provincia di Lucca, il 9 novembre del 1935, nel corso della sua carriera di fotoreporter ha raccontato gli eventi più importanti dell’ultimo cinquantennio, facendo della realtà così come è  il punto di riferimento della sua intensa ricerca professionale. Definiva la sua fotografia «totale» e i suoi scatti  «un documento umano di impatto visivo», perché solo cercando di immedesimarsi con l’umanità intorno a sé il fotografo può comprendere e far comprendere la vera essenza della storia che vuole raccontare.

Romano, dopo aver cominciato a fotografare giovanissimo nei laboratori di scultura della sua città natale toscana, Pietrasanta, famosa per questa vivace attività artistica, nel 1958 si trasferisce a Londra, e lì vive per 30 anni. Qui, ha iniziato a lavorare come fotografo freelance, contribuendo a diverse riviste europee. Conosce Simon Guttman, uno dei fondatori del fotogiornalismo moderno. Comincia a viaggiare, convinto che il mezzo fotografico abbia la grande capacità di raccontare in profondità la realtà senza utilizzare neppure una parola. È stato il primo fotografo occidentale indipendente a essere ammesso nel Vietnam del Nord. Innumerevoli i suoi reportage, tra cui: Cambogia, Biafra, Israele, Irlanda del Nord, Afghanistan, Jugoslavia, Kosovo. Nel 1995 è l’unico a fotografare i guerrieri ceceni, organizzando uno studio di ripresa nel mezzo della guerra a Grozny. È successivamente tornato a vivere a Pietrasanta, sua città natale, dove è scomparso nel 2018 all’età di 82 anni.

I suoi reportage sono una forma nuova di ricerca e di profonda conoscenza delle contraddizioni che assillano l’uomo. Ha una totale conoscenza del potere dell’immagine, a tal punto da considerare le sue fotografie l’unico modo per rivelare l’alterazione tra realtà e apparenza in un tempo di crescenti incertezze: «Le foto – affermava Romano – hanno il compito di formare le opinioni del pubblico scovando la verità nascosta, oscurata dai media. Attratti da notizie fuorvianti o frivole, la vera ricerca del vero è quasi impossibile all’interno di situazioni difficili come conflitti sociali, guerre e cambiamenti politici».

In qualità di profondo osservatore della realtà è assolutamente consapevole di quello che lo circonda e sente: prima di scattare una foto, spesso passa lunghe ore in solitudine a osservare attentamente una forma, un’ombra, un gruppo o una sequenza di eventi. Ha una esigenza, catturare in un solo scatto tutto quello che lo attrae del mondo reale. Il tempo che passa, i suoi ricordi e la qualità della luce, i suoni che cambiano arrivando dall’ambiente circostante, tutto è catturato nelle sue fotografie con magico realismo. Vicine alla tragedia classica, hanno una forte presa su chi le osserva.

Memorabile è la fotografia realizzata a Sarajevo nel 1992, che riportiamo in questa rubrica, in cui ritrae una bambina dallo sguardo dolce e sicuro, che porge al fotografo una bomba da mortaio. Uno scatto brutale, molto contraddittorio, tanto quanto la visione della morte stessa, perché Cagnoni rifugge la retorica della fotografia di guerra e stimola la riflessione dell’osservatore ponendolo davanti all’esistenza di una bambina giornalmente costretta a vivere in una situazione di indicibile violenza. Alla ricerca continua della meraviglia, anche nell’assurdità, l’immagine ci costringe a riflettere, sembra gridare a chi la osserva con attenzione: «Tieni, come posso essere felice con questo mortaio?». E questo lo fa emergere senza ostentare il sangue o la brutalità della guerra.

«Non c’è fotografia che non racconti la sua verità», ripeteva spesso Romano, perché frutto di un attento percorso di conoscenza e immaginazione, lontano da qualunque retorica, alimentato dalla ricerca dell’immagine che desti meraviglia. I suoi scatti hanno sempre un messaggio preciso, capaci di connettersi direttamente al fenomeno misterioso della vita. Negli anni Ottanta, dopo la morte della seconda moglie, torna a Pietrasanta, dove scatta fotografie nelle cave di marmo, un luogo magico, che stimola la riflessione e fa emergere tanti ricordi, permettendogli di riacquisire la giusta serenità d’animo per proseguire il proprio lavoro. Infine, nel 2005, quasi ottantenne, entra in Siria clandestinamente per documentare la vita nei campi profughi, ed è qui che ai ragazzi presenti chiede di scattare un selfie con l’intento di far dire loro: «Nonostante la guerra, nonostante le discriminazioni, nonostante la violenza, io esisto».

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