È possibile diventare prigionieri di sé stessi? Condurre una vita apparentemente lineare, logica, propositiva e ritrovarsi invece trascinati come fa la corrente di un fiume con i tronchi spezzati? Sembrano quasi interrogativi pirandelliani. E, in fondo, lo sono, perché afferiscono a quella parte di noi con cui spesso evitiamo di fare i conti. Alla paura di precipitare di schianto dai cumuli di certezze che abbiamo affastellato con fatica lungo la nostra esistenza. Lì, da quel piedistallo traballante, crediamo di dirigere le nostre mosse come sapienti registi aggrappati alla ferrea solidità di un copione: solo che la realtà, spesso, ha un altro volto. Finiamo per seguire un canovaccio, per improvvisare e per fingere, fino al punto da dimenticare dove finisce la recitazione e dove comincia la vita. Come se una sindrome da palcoscenico ci rendesse subdolamente suoi sudditi. Come se ci consumasse al punto da svuotare di ogni autenticità il nostro agire. Sferzati da quell’inganno, ci guardiamo vivere. Lasciamo che siano gli altri a raccontare di noi – o a manipolare – quello che a noi ormai sfugge. Diventiamo, insomma, delle marionette ciondolanti, legate ad un filo opaco che ci strattona quasi come una danza beffarda. Proprio le marionette sono state la metafora esistenziale prediletta da Pier Maria Rosso di San Secondo, scrittore e drammaturgo nisseno nato nel 1887 e particolarmente apprezzato, non a caso, da Luigi Pirandello. Come poteva, del resto, l’autore di Uno, nessuno e centomila, rimanere indifferente alla profondità con la quale il collega era solito mettere in scena le surreali solitudini dell’uomo? Quegli istinti brutali e sclerotici lasciati in dote dalle due guerre mondiali? Quel trionfo dell’indifferenza che oggi, tristemente, ci appare come una profezia realizzata?

Pier Maria Rosso di San Secondo

Fu, infatti, con Marionette, che passione!… (1918) che il nostro conterraneo conobbe il successo. Un’opera dai tratti avanguardistici, vagamente affine a certi intrecci cari a Beckett e al teatro dell’assurdo. A cominciare dall’assunto che, a ben guardare, una trama non esiste. Tutto ruota attorno ad un presunto, ossessivo ma flebile triangolo amoroso tra personaggi che non possiedono neppure un nome proprio: il Signore in grigio, il Signore a lutto e la Signora dalla volpe azzurra. Tuttavia, la loro interconnessione si rivela presto allo spettatore come ciò che è realmente: la tripartizione di un’unica figura. O, forse, di un unico sentimento: quello dell’indifferenza. Le azioni dei protagonisti sono al limite dell’insignificante: una proposta di convivenza, una scaramuccia dovuta alla gelosia, un tira e molla stucchevole. Frasi fatte, gesti meccanici come quelli di un automa, un desiderio tutto fittizio che si spegne alla prima occasione. La passione e l’amore sono, nel dramma di Rosso di San Secondo, semplicemente dei pretesti per guardare con compassione all’impossibilità umana di vivere pienamente. All’alienazione, alla spersonalizzazione dei suoi stessi personaggi, incapaci di incidere sulla storia ed eterodiretti dal flusso incessante e travolgente delle cose. Viene persino il dubbio che non siano le persone il fulcro della narrazione: bensì le prolungate pause silenziose che si alternano tra intermezzi fatti di parole raffazzonate e titubanti.

Riflessi sbiaditi di un’atmosfera mortale, di stasi, che consegna quelle scene all’immobilismo perenne: mentre il mondo prosegue la sua corsa, incurante delle macerie che il suo irruento passaggio lascerà come scia, chi lo abita rimane indietro. Straniero agli altri e a sé stesso, a cui resta solo la sparuta di pietà di qualcuno. E del proprio creatore. Che sapeva, forse di condividere l’amara sorte: «Tengano presente gli attori – si legge nell’avvertenza che conclude il preludio – che questa è una comme­dia di pause disperate. Le parole che vi sì dicono ce­lano sempre una esasperazione che non può essere resa se non in sapienti silenzi. – L’arbitrario, inoltre, che può parere vi sia nella commedia, risultando dal tormento in cui si macerano i personaggi, non deve dar luogo al comico, bensì a un sentimento di tragico umorismo. Pur soffrendo, infatti, pene profondamente umane, i tre protagonisti del dramma, specialmente, sono come marionette, e il loro filo è la passione. Son tuttavia uomini: uomini, ridotti marionette. E, dunque, profondamente pietosi!».

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