«Io fotografo il quotidiano della vita, anche quello che può sembrare banale. Ho cercato anche negli squarci di apparente e umile monotonia, grazie a uno sguardo nuovo, la felicità nel silenzio di un istante». Così il fotografo ungherese André Kertész riassumeva la sua traiettoria poetica che si snodò attraverso tutto il Novecento e lo consacrò come una delle massime figure della cultura mondiale. Nato a Budapest nel 1894 da una famiglia della media borghesia ebraica, si immerse già dalla giovinezza nella temperie culturale della mitteleuropa. All’arte fotografica, passione scoperta da bambino sfogliando delle riviste illustrate insieme allo zio, non si avvicinò professionalmente fino ai trent’anni a causa delle imposizioni dei genitori che scelsero per lui sia gli studi in economia sia un tetro impiego presso istituto bancario. Un “lavoro sgradevolissimo”, come lui stesso ebbe a definirlo, che Kerstész si lasciò alle spalle nel 1925 allorché si trasferì a Parigi per inseguire il suo sogno. Non prima però di conoscere Elisabeth, sua futura mogle e grande estimatrice del suo talento.

Disinteressato a conformarsi a canoni estetici o approcci alla fotografia elaborati da altri, come artista André Kertész era capace di aprirsi strade sorprendenti che diventavano immediatamente punto di riferimento per chiunque si muovesse nel mondo della fotografia. Nonostante la sua proverbiale modestia – amava infatti definirsi un eterno dilettante – molti dei grandi del suo tempo si accorsero immediatamente delle sue rare capacità. Uno tra tutti Henri Cartier-Bresson il quale rilevò come: «Qualunque cosa noi vediamo, Kertész l’ha già vista prima».

Artista istintivo e caratterizzato da un’innata antipatia per gli artifici – era noto per rifiutarsi di correggere le sue immagini in camera oscura – amava andare in giro con piccole macchine fotografiche nascoste sotto il cappotto in modo da essere sempre pronto a catturare la realtà così come si presentava. Uno stile furtivo di un “fotografo nato” al quale non interessò mai ritrarre le situazioni eccezionali, preferendo invece ritrarre e “magnificare” quanto di più semplice, sebbene nascosto, si presentasse di fronte ai suoi occhi.

Testimonianza di questo approccio è una delle sue immagini più celebri, risalente al 1928. Una forchetta e un piatto posati su un tavolo domestico non diventano, come ci si sarebbe potuti aspettare da un altro artista, il viatico di uno scatto sofisticato e dai connotati astratti, bensì vengono rispettati nella loro semplice funzione di utensili, di uso comune ma non per questo banali.

La libertà della sua visione artistica lo portò talvolta ad essere incompreso anche dai suoi estimatori. Scalpore e delusione destò, almeno inizialmente, la sua serie “Distorsioni”, nata da un lavoro commissionatogli nel 1933 dalla rivista “Sourire”. Corpi di donna il cui riflesso veniva trasfigurato e alterato da specchi deformanti – bollati da alcuni come una caduta di stile e un esperimento fallito – finirono invece per influenzare profondamente l’immaginario di innumerevoli artisti, registi e fotografi.

Neanche gli Stati Uniti, che Kertész scelse come sua casa dopo l’esperienza parigina, riuscirono a comprenderlo immediatamente. Un mercato che apprezzava immagini più vuote, laddove le sue “dicevano troppo”, lo costrinse a guadagnarsi da vivere con foto dallo stile più convenzionale. Ma non per questo il fotografo ungherese smise di continuare a scattare nel modo ribelle e ambiguo che lo aveva da sempre contraddistinto. Come ad esempio nel 1951, anno a cui risale la foto qui presentata, “Bambini e ombre nel parco”. Il luogo è la città di New York e, come in tante altre immagini, lo spettatore è stimolato a farsi delle domande. La foto ritrae un attimo fuggente, un’emozione fugace in un parco dove alcuni bambini giocano. Le sue immagini vivono nel ricordo e generano a loro volta ricordi. Lo scatto è un esempio dello stile poetico e visionario di Kertész, lontano da ogni etichetta, dove qualsiasi soggetto al mondo può diventare una bella fotografia, carica di significato, anche la quotidianità di un parco ritratto dall’alto. Le ombre deformate, enormi con un sole al suo tramonto sono le vere protagoniste dell’immagine. Ci raccontano di uno sguardo sempre capace di meraviglia, ma colmo di tanta nostalgia che non smettono di affascinarci.

Rimasto vedovo di Elisabeth nel 1977, Kertész condusse una vita estremamente ritirata nel suo appartamento newyorkese anche se i suoi occhi non smisero di cercare qualcosa che li colpisse: imbracciata una Polaroid iniziò a fotografare, sperimentando anche con il colore, gli oggetti posti sul suo davanzale. Ne venne fuori il libro “From my Window”, uno degli ultimi lasciti dell’artista insieme ad oltre 100.000 negative.  

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