Esistono dei frangenti in cui persino l’elegante e penetrante dettato del linguaggio letterario, la sua capacità di far sentire la propria voce oltre ogni tentazione d’afasia, è costretto a cedere il passo. In cui i rimbombi illogici della storia – un’esplosione, un grido di dolore, un’invettiva carica di acredine, la sopraffazione della giustizia – finiscono per sovrastare lo sforzo titanico di chi vorrebbe razionalizzarli e raccontarli. In cui a trionfare, sopra il maldestro balbettio di un cuore sgomento per la brutalità degli eventi, è semplicemente, ineluttabilmente, il silenzio. Non c’è forma letteraria, o categoria estetica, che possa aspirare e restituire con completezza questo genere di sentimento. Bisognerebbe solo, forse, affidarsi alla sincerità di ciò che è frammentario, brancolare nell’oscurità dei ricordi per riportare alla luce qualcosa di familiare, armarsi del coraggio di disseppellire dalla coltre delle macerie collettive l’intimità della propria storia. Ed è esattamente ciò che si propose di fare Vincenzo Consolo, quando decise, nel 1998, di dare vita a quella singolare avventura editoriale che è Lo spasimo di Palermo. «Aborriva il romanzo, – scrisse lo stesso autore a proposito della propria produzione – questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in una diversa lingua, dissonante». Una definizione, questa, che ben si attaglia alla storia che vede come protagonista lo scrittore Gioacchino Martinez, impegnato in un ritorno tanto agognato quanto angoscioso nella sua amata Sicilia. È forse un romanzo storico, quello che Consolo ci propone? È più un ibrido tra un diario di viaggio ed un’autobiografia metaletteraria? O è, sostanzialmente, l’unione senza nome e senza etichette di tutti questi elementi? Di sicuro, è la storia ciclica di una terra mortificata dal continuo alternarsi di burrascose vicende. La ricostruzione appassionata del destino di un intero popolo, abbarbicato alla sua inesauribile voglia di rinascere eppure continuamente ostacolato nella propria lodevole resistenza. La ricostruzione genealogica di un’innocenza che lentamente si trasforma in una colpa ancestrale e sotterranea.

Le peripezie di questo peculiare figliol prodigo, infatti, desideroso di riapprodare nel capoluogo isolano in cui aveva speso la propria infanzia, si aprono e si chiudono in perfetta corrispondenza, all’ombra di lutti difficilmente elaborabili. In mezzo, in un periodo che va dagli ultimi scampoli della Seconda guerra mondiale agli inizi degli anni ’90, un’infinita costellazione di volti e di segreti, di illusioni e di risvegli. Come quello da cui questo grande slancio della memoria ha inizio: Gioacchino è appena un bambino e tra le mura apparentemente sicure dell’oratorio è incollato alla proiezione di Judex, film del 1916 diretto da Louis Feuillade. Ancora non sa che questa scena, un po’ alla The Fabelmans di Spielberg, sarà a lungo il suo ultimo ricordo di felicità. La proiezione viene interrotta a causa dei bombardamenti. Il dramma della guerra, che non risparmia nessuno, si è dimostrato persino più forte della purezza infantile. Per l’ennesima volta la Sicilia appare violata, ferita, trafitta da qualcosa che le è esterno. Dall’invasione della storia nella sua versione più cupa. Ma c’è un altro – se possibile ancora più sinistro – elemento che Gioacchino ignora. Ovvero come quella pellicola, che racconta le gesta di un giustiziere vestito di nero che dà la caccia ai potenti spietati che si arricchiscono sfruttando e schiacciando i più deboli, Judex per l’appunto, sia una finestra sul suo stesso futuro. Su quel rientro nell’isola, a distanza di anni, in cui il suo sguardo e la sua vita incroceranno un altro uomo di giustizia. Un “judex”, anche in questo caso, che persegue i criminali armato solo della sua iconica toga nera. E che perderà la vita in un afoso pomeriggio d’estate, mentre si appresta ad andare a trovare la madre. A causa di una bomba che esplode proprio di fronte al palazzo in cui Gioacchino Martinez si è stabilito. Quel giustiziere senza macchia e senza maschera alcuna era Paolo Borsellino. E la sua morte, frutto ancora una volta di una bomba assordante come quelle che cadevano a pochi passi dall’oratorio, è l’ennesimo lutto di un cerchio che drammaticamente si chiude davanti agli occhi del nostro protagonista. E di tutti noi.

Perché Gioacchino ci riflette tutti. È il Consolo uomo e scrittore che ripercorre con tristezza il proprio andirivieni tra Milano e la Sicilia. È il siciliano di ogni tempo, che oscilla tra lo scoramento dell’’impotenza e il rigurgito rabbioso di libertà. È il lettore di oggi e di domani, a cui tocca ancora forgiare la propria sorte. Non sarà un romanzo. Non sarà un poema. È, come ci suggerisce l’autore, «un libro in cui vengono registrate le sconfitte e soprattutto la memoria degli innocenti sopraffatti dai delinquenti». Ma anche il tentativo di trovare, in quelle stesse sconfitte, una scintilla di comune patire e sentire.

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