Se l’integrazione parte dal carretto: così Carmen ha imparato a sentirsi siciliana
La “sicilianità” come una seconda pelle. Non nella fissità di un tatuaggio, bensì nella multiforme esuberanza cromatica di un particolare o di una figura un tempo fieramente in mostra sulle fiancate di un carretto siciliano, da esibire, oggi, con lo stesso orgoglio, su di un giubbotto di jeans, o uno zainetto, o sulla montatura degli occhiali.
L’arancio, il rosso, il verde, il giallo oro delle forme che Carmen Manolache, 20 anni, ragusana, realizza a mano su outfit personali, rivelano un’identità che ha le radici ben piantate nella tradizione e lo sguardo spalancato sull’orizzonte del futuro. Solo che Carmen, siciliana non è. Le sue radici, infatti, affondano in terra rumena.
«Non spiccicavo una parola – racconta pensando ai primi giorni nella nuova realtà di un paese straniero -, sapevo dire solo “ti amo” e “pronto”. Ricordo che, portando i capelli cortissimi e non riuscendo a esprimermi in italiano, le altre bambine mi evitavano. Quando invece provavo a dire qualcosa mi prendevano in giro». Nella storia di questa ragazza timida e risoluta, attenta ai particolari, c’è un poco della storia degli ultimi decenni della nostra terra e molto di quello che sarà. Fuori dall’emergenza degli sbarchi di immigrati si costruiscono, infatti, i percorsi di integrazione (o di “dis-integrazione”) ai cui guardare e dai quali imparare. Sono le storie dei “nuovi siciliani”.
Ma come mai la scelta è ricaduta proprio sul carretto? «È stato entrando per caso in una bottega, a Ibla, che è accaduto qualcosa di straordinario. Varcando la soglia di quel posto ho fatto un salto nel tempo di almeno cento anni. Due eccezionali maestri esponevano le loro opere legate alla tradizione siciliana e proponevano dei corsi di pittura. Tra gli oggetti, uno non finiva di attrarmi: un carretto tutto colorato sul quale i contadini un tempo trasportavano le cose essenziali della loro vita, e che dipingevano per mostrare a tutti la propria identità e il proprio rango sociale».
«In rumeno “carretto” si dice “cărutjă”, ma la traduzione con “carrozza” non rende. Però, quell’oggetto esposto nella bottega mi ricordava il carro che mio nonno usava in Romania».
Nasce da qui l’intuizione di dipingere su capi di vestiario e oggetti personali ciò che un tempo sfolgorava sui carretti siciliani. Non come prodotto massificato, però, bensì come descrittivo della personalità di chi lo indossa. Una sicilianità possibile per tutti, anche per chi non è nato in questa terra. È interessante notare come, la scoperta del valore e dell’attualità di una tradizione si origini in persone che «forse proprio perché hanno le radici in un’altra terra e in una diversa storia non le danno per scontate». Fatto sta che Carmen Manolache crea una un Brand: “Pampinedda”.
È una storia bella quella di Carmen, perché ha saputo trasformare lo svantaggio in un’occasione. Oggi, da giovane donna, guarda alla realtà tutta valorizzando ogni dettaglio. Anche il passato. «Ad una ragazzina che arrivasse oggi in Italia, direi di non farsi troppi problemi, di non fissarsi sulla questione della diversità. Io l’ho imparato con il tempo. Il mio futuro è qui – afferma con certezza – e io mi sento italiana. Voglio però tornare in Romania per viaggiare, per conoscerne la storia e non dimenticarne la lingua».