A inaugurare la 14esima stagione Altrescene di Zo Centro Culture Contemporanee è lo spettacolo di Roberto Latini con protagonista PierGiuseppe Di Tanno, che oscilla, con un’ardita opera di metateatro, tra i due giganti del dramma

[dropcap]«[/dropcap][dropcap]M[/dropcap]anicomio! Manicomio!» gridarono interdetti i primi spettatori dei “Sei personaggi in cerca d’autore”, una reazione se vogliamo comprensiva verso quel testo che, nel 1921, modificò drasticamente il modo di fare e intendere il teatro. Ed è proprio con un “lavoro alla seconda” sull’opera pirandelliana che Roberto Latini, nella doppia veste di drammaturgo e regista, dà vita a  “SEI. E dunque, perché si fa meraviglia di noi?”, spettacolo che domenica ha inaugurato la 14esima stagione “Altrescene” di Zo, Centro Culture Contemporanee. Un titolo in cui il riferimento ai personaggi si perde mentre la scrittura scenica in tutte le due parti – dialoghi, battute e didascalie – tracima dalla bocca di uno stupefacente PierGiuseppe Di Tanno, premio UBU 2018, il quale dall’alto del suo trespolo con una maschera da teschio calata sugli occhi, una gorgiera viola al collo e dei leggins in lattice, è di volta in volta il Padre, il Capocomico, e ancora il Figlio, la Figliastra e la Madre. Proprio quest’ultima ammantata di una carnalità alla quale mai nessuno ci aveva abituato e che vuole svelare un reale istinto passionale sempre celato a dovere. Ciascuno caratterizzato con forza da un gesto o un atteggiamento: il dolore della Madre che stringe le mani al ventre, la sensualità della Figliastra che affascina con il riflesso perlaceo delle sue unghie, la voce roca del Macchinista e l’atteggiamento risoluto del Capocomico. Singole esistenze che s’intrecciano nel dramma e che sopravvivono al palcoscenico anche quando le luci dei riflettori si spengono. Un destino, quello della Bambina e del Giovinetto, segnato dalla morte che si concluderà con la sepoltura del personaggio/persona mentre gli altri interpreti saranno destinati in eterno a una strana forma di coazione a ripetere.

TEATRO OLTRE IL TEATRO. Una lettura che va oltre la dimensione del metateatro, in cui la rottura della quarta parete è suggerita dalla caduta del velatino che delimita lo spazio scenico e dal fatto che all’apice della tensione segua sempre una folata d’aria fresca, prodotta da un ventilatore, con la quale si svela la finzione. Le riflessioni di Pirandello sulla vita lasceranno spazio a quelle di Shakespeare sulla morte, racchiuse nel quinto atto dell’”Amleto”, quando i due becchini, entrambi interpretati in inglese da Di Tanno, s’interrogheranno su quanto sia giusto dare degna sepoltura alla suicida Ofelia. In un parallelismo del tutto lineare si accostano i due drammaturghi e le loro opere con i rimandi alla dimensione del teatro nel teatro: il principe di Danimarca che durante lo spettacolo inscena la morte del padre e i personaggi che rivivono le loro sventure affinché gli attori le possano conoscere. Di come a un’azione retta, possa seguirne una di forza pari e contraria, come quando non riuscendo a superare il rifiuto dell’amato, la figlia di Polonio porrà fine alla sua esistenza, inconsapevole del fatto che il gesto di Amleto fosse solo un inganno o di come il Giovinetto, sentitosi responsabile per la morte della sorellina, Rosetta – l’unica ad aver abbandonato lo status di personaggio ed esser diventata più reale della realtà – si spara. D’altra parte, in questo, Nietzsche parlando di Amleto è chiaro: «La conoscenza uccide l’azione, per agire occorre essere avvolti nell’illusione» .

CONTRASTI. Molto è giocato sul doppio, a cominciare dallo stesso Di Tanno che diventa alter ego di Latini, noto nei suoi lavori per il modo in cui fa sperimentazione attraverso la nuda voce, mai in maniera naturale ma sempre fuori dagli schemi, e di come scelga di amplificare quella dell’attore grazie a un microfono calato dall’alto. Ogni singolo muscolo è in azione in uno spazio vitale ridotto ai minimi termini mentre la silhouette viene proiettata sulle quinte laterali. Una risata malsana funge da tappeto nella prima parte, per lasciare posto alle musiche dei sentimenti scritte da Gianluca Misiti. Le luci sono studiate con rigore da Max Mugnai, come lampi attorno alle parole proiettate sul velatino nero, che ancora una volta rimanda al testo teatrale, oppure demoniache quando con il rosso riproduce gli inferi creando al contempo un senso di baratro che toglie il fiato. Non solo umanità ma anche l’utilizzo a vista di molte apparecchiature: dal ventilatore al cannone che spara la schiuma in cui Di Tanno s’immerge durante il grande finale. La capacità del Fortebraccio Teatro di Latini & Co. è quella di lasciare aperta una riflessione sul senso dell’esistere attingendo ai più grandi maestri, sempre in maniera originale e senza il timore di sporcarsi le mani. Allo spettatore è richiesto un grande sforzo, non ci si può fermare solo allo strato linguistico, è quasi d’obbligo conoscere il punto di partenza, in questo caso la poetica di Pirandello e Shakespeare, per cogliere al meglio tutti i rimandi, ma soprattutto l’impegno principale è quello di non lasciare inascoltata la speculazione filosofica che ne scaturisce. Un teatro post-atomico dalle cui macerie e senza isterismi di sorta si origina la speranza di poter ricostruire qualcosa di solido e duraturo.

 

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