Chiamiamolo Moussa, ma non è il vero nome. Diciamo che è senegalese, anche se non è così. Certamente è vera la sua storia. I fatti che lo riguardano mi interpellano mentre scorrono sugli schermi le immagini di Minneapolis in fiamme e Londra e New York pullulano di manifestanti. “Black Lives Matter”, è ovvio, ma – mi chiedo – per cambiare il mondo è necessario farlo bruciare?

Nei giorni delle statue imbrattate, dei monumenti rimossi a distanza di secoli perché gli uomini e i simboli che rappresentano, non hanno la “purezza” per reggere al “sentimento presente”, il mio amico Moussa mi contatta su Whatsapp con un messaggio dai toni drammatici: «Scusami, ho una richiesta». «Ok» gli rispondo. «Credimi, se avessi un’altra soluzione non chiederei aiuto. Ho toccato il fondo da tanto tempo. E ora non so che fare. Ormai mi manca tutto a casa. Non riesco neanche a trovare da mangiare». Mentre leggo il messaggio sento che solo la disperazione vince la sua riservatezza. «Da due settimane mangio da amici» scrive ancora. Gli chiedo l’indirizzo, preparo un pacco di alimenti e glielo porto. Mi attende sull’uscio di casa. Mi ringrazia, ma niente di quel pacco è mio; tutto Banco Alimentare e spesa sospesa dei ragusani.

Di recente, dopo tanto cercare, il mio amico era riuscito a trovare un’occupazione che gli piaceva, ma, a un certo punto, qualcosa è andato storto. «Cosa è successo al lavoro?» chiedo, tentando di andare dritto al punto. «Sono dovuto andare via» confessa con gli occhi bassi ma con voce ferma. «Al lavoro c’era uno che mi chiamava “babbuino”. Io non capivo. Poi ho chiesto: “Ma cosa significa “babbuino”»? E allora gli ho detto: «Perché mi dici “babbuino”?». «Perché sei uno schiavo» mi ha risposto. «Anche tu lavori qui!» ha ribattuto Moussa. «Si, ma io sono un professionista, tu uno schiavo». La logica è sfuggente, ma il concetto è chiaro. Fatto sta che il datore di lavoro, intuendo che quei due, insieme, non potevano stare, ha scelto il più indispensabile sacrificando il ragazzo di colore. Il lockdown ha fatto il resto.

Minneapolis non è così lontana. Cercherò di dargli una mano nella ricerca di un nuovo lavoro.

Nuovo messaggio: «Tra due giorni non avrò più una casa. Non pago l’affitto da mesi». I coinquilini lo vogliono fuori. Proviamo a saldare alcune mensilità arretrate? Niente da fare. «Le persone che abitano con te non hanno avuto momenti di difficoltà?» domando. «Sì – è la risposta – ma si dimentica facilmente». In questo caso non basta manifestare contro il razzismo, i coinquilini sono neri quanto lui. Basterà cambiare gli slogan?

In questa terra gli amici degli amici possono anche costituire una risorsa positiva. Uno di loro, chiamiamolo Giuseppe, offre un posto letto in casa sua. Lo incontriamo. Ha una disabilità. Gli serve una persona che lo aiuti durante la giornata. Si palesa la possibilità di un lavoro, però chiede del tempo per sistemare la stanza e poi – spiega – «frequentandoci un poco, Moussa capirà se io gli vado bene e io verificherò se lui è adatto alle mie esigenze». Chiaro. Prendersi cura di una persona adulta, disabile, assisterlo nei suoi bisogni? L’espressione di Moussa mi sembra perplessa. All’improvviso i temi dell’integrazione, dell’accoglienza della diversità, del rifiuto della discriminazione si fanno carne nella sua storia in una modalità imprevista. Le parti, in qualche modo, si confondono.

Accogliere, infatti, non significa essere d’accordo con dei principi, non basta manifestare o prendere a pugni un “fascista”. Per accogliere ci vuole una educazione, il tempo di un riconoscimento reciproco, è necessario un abbraccio che somigli a un perdono. «Da come lo tocchi – dico a Moussa mentre lo accompagno alla sistemazione messa a disposizione in pochi minuti dalla Caritas di Ragusa – Giuseppe capirà se lo accogli davvero. Non si può fingere». Moussa lo sa bene. Per lui è la stessa cosa, ma non nasconde la sua difficoltà. Forse non basta nemmeno avere subito la discriminazione per essere capaci accogliere la disabilità, o forse, i sogni di un ragazzo di ventiquattro anni, semplicemente, stridono sempre con la realtà.

La sera seguente il giovane senegalese mi informa della sua volontà di accettare l’offerta di un amico di ospitarlo al Nord, da sempre, per tutti, la Terra promessa. Gli dispiace. Non importa. Gli resta impressa sulla pelle, credo, l’esperienza di una gratuità che un giorno, forse, porterà frutto nella sua vita e in quella degli altri. E questo sta già cambiando il mondo.

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