Gli amori più intensi, spesso, sono quelli che si librano, belli e disperati, sul filo della distanza. Quelli che sanno perennemente di amara nostalgia, che non si spengono perché, in un certo senso, non si sono mai davvero accesi. Scivolano silenziosi lungo fogli ingialliti dalla noia, piroettano aggraziati tra pensieri decadenti, si inabissano sul fondale della rassegnazione fino a quando il sonno non ne sospinge il relitto nuovamente in superficie. La loro apparente o fattiva impossibilità è il presupposto della loro concretezza, il segreto malinconico della loro grandezza. Perché la separazione, la sospensione di due vite che non sanno procedere innanzi se non in parallelo, è ciò che più somiglia all’eternità. L’interdetto è lo specchio del duraturo, del dubbio che si accartoccia su sé stesso, che si traveste da piacevole tortura. Ma pur sempre da tortura. Gli amori veri sono condannati ad essere ricordati, a sovrastare la banalità del lieto fine con la complessità del loro travaglio. Gli amori veri sono incomprensibili, inauditi, favolistici nella loro maledetta vaghezza. E per questo affascinanti: perché l’ignoto, l’eccezione, non sa sfiorire. Come mai sfiorita fu l’unione tra Giuseppe Tomasi di Lampedusa e la moglie Alexandra – detta LicyWolff Stomersee, psicanalista di fama mondiale. A nulla, infatti, valse la dolcezza dei loro primi incontri, datati 1925. Non l’incrocio fugace e fatale che rischiarò una boriosa festa dell’alta nobiltà. Non la sorpresa di scoprirsi ugualmente ammiratori di Shakespeare, al punto da saperne recitare a memoria e in duetto alcuni dei versi più belli. Né l’entusiasmo infantile di tenersi mano nella mano tra i vicoli di Londra. Poi l’attesa: cinque anni di sogni aggrappati a parole dette a metà. Il preludio all’apparente conclusione: le agognate nozze del 1932 nella suggestiva cornice di una chiesa ortodossa. Una candida illusione. Perché la sorte aveva già in serbo la prova più difficile. Quella che, tuttavia, finì per temprare la loro passione più di quanto avrebbero mai potuto immaginare.

Fin dagli albori della loro relazione, infatti, Tomasi di Lampedusa aveva dovuto fronteggiare le rimostranze della madre Beatrice Tasca di Cutò, a cui lo scrittore era visceralmente legato. Alexandra aveva già alle spalle un matrimonio finito, e per di più incarnava perfettamente il prototipo di donna moderna, indipendente, diretta. La convivenza palermitana tra le due donne – tra gelosie e spigolosità caratteriali, durò appena qualche mese: la Wolff decise di tornare nella lontana Lettonia, presso l’antico castello posseduto dalla famiglia. Lo scrittore, invece, affranto per il dolore che aveva involontariamente causato alla madre, scelse di restarle accanto e sacrificare il suo matrimonio. Ma da quella burrascosa fine un fiore ancora più bello era pronto a germogliare. Quell’esistenza che li aveva meschinamente allontanati si tramutò in uno dei romanzi più belli della storia. Un romanzo fatto di visite sparute, ed attese con ossessiva impazienza, certo, ma anche di lettere cariche di purezza, di innocenza, di speranza. Più il tempo li divideva, più il loro bisogno reciproco cresceva. Più l’intangibilità del sentimento si faceva insopportabile, più un manto di meravigliosa delicatezza avvolgeva le loro anime, profumandole dell’inchiostro di un epistolario più che decennale. «Tutta la notte – scrive Tomasi di Lampedusa in una delle ultime lettere che precede il definitivo distacco e che sembra quasi profetica – questa volta, ho sognato di te, di te cattiva, di te scherzosa, di te triste; ho sognato che tu eri lontana e che ricevevo da parte tua lettere impossibili, ho sognato che tu eri vicino a me e che mi amavi, e ho sentito chiaramente la pressione delle tue braccia attorno il mio collo». L’autentico testamento spirituale di una vita consacrata ad un amore sventurato. Ripercorso con dolore, ma anche con gioioso compiacimento della sua resilienza, in un’altra missiva – tradotta qui dal francese, lingua che i coniugi utilizzavano solitamente nel loro carteggio – redatta nel 1942 in occasione del decimo anniversario di nozze: «Mia carissima e amatissima, ti scrivo oggi espressamente, per il nostro decimo anniversario di matrimonio. Tra tutte le cose mobili e fluide, non c’è niente che sia più solido e immutabile del mio amore per te, che aumenta con la distanza e si rafforza con l’assenza».

Un amore, insomma, più forte delle ruggini e delle incomprensioni. Più forte dei pettegolezzi che degradavano il loro amore ad una distanza libertina. Più forte persino della logica, che una simile storia mai avrebbe potuto concepire. Compreso il finale. Quando i due, all’indomani della devastazione lasciata in dote dalla Seconda guerra mondiale – il castello dei Wolff fu requisito dai sovietici, mentre il palazzo Lampedusa fa abbattuto dai bombardamenti – perso tutto ciò che aveva fatto da contorno alla loro immaginifica unione, si ritrovarono vicini. A trascorrere insieme gli ultimi anni. Un modesto, insufficiente risarcimento. Che non mancò, incredibilmente, di generare ancora frutto. Sarà Licy, nel 1957, alla morte dell’amato principe, ad occuparsi del manoscritto de Il Gattopardo. Il suggello di un sentimento proiettato negli astri della leggenda.

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