Sempre più spesso stiamo assistendo a degli appelli per la nascita di una nuova “resistenza”. Da Roger Waters a Roberto Saviano, passando per Salvatore Settis, intellettuali, artisti, umanisti non mancano di ricordarci – quasi ogni giorno – di quanto sia importante “resistere”: di fronte alla mancanza d’umanità, al depauperamento della cultura, all’infrangersi dei nostri sogni. Ma cosa significa davvero parlare di resistenza oggi?

La mia generazione è quella delle promesse negate: nati a metà degli anni ’80, siamo cresciuti nella convinzione che la sola abnegazione e lo studio sarebbero bastati a trovare il nostro posto nel mondo, salvo poi essere redarguiti per non esserci resi conto che le regole erano cambiate (in corso d’opera): per sopravvivere – e non per eccellere – oggi bisogna essere imprenditori di se stessi, startupper, creativi.

Ma per quante rockstar c’è spazio in questo mondo? E cosa sarà di tutti gli altri? Le ultime rilevazioni Istat ci dicono che in Italia nel luglio 2018, sebbene siano diminuiti i disoccupati, sono aumentati gli inattivi, cioè coloro che rinunciano a cercare lavoro.

Di che tipo di resistenza abbiamo, allora, bisogno? Resistere non deve significare solamente essere resilienti – avere cioè la capacità di assorbire un colpo – ma rimanere lucidi in un contesto annichilito dalla presunta morte del pensiero critico. Un contesto nel quale ai fatti viene favorita una post-verità confortante.

Se è vero che, anestetizzati dagli algoritmi dei social, stiamo perdendo il contatto con la realtà, l’unico modo per fare resistenza diventa allora quello di non piegarsi in una gara al ribasso, nonostante le sollecitazioni rivolte ai nostri istinti peggiori.

Resistere, specie per i giovani, deve significare avere la forza di addentrarsi nel profondo anche quando la superficie appare più facile e rassicurante. Una forza, questa, che può venire solo dalla cognizione del fatto che gli strumenti d’interazione e comprensione del mondo sono irreversibilmente cambiati rispetto al passato.

Per resistere – e per restare davvero umani – è necessario uno sforzo nel ripensare una società del confronto che sia reale e non fondata esclusivamente sul consenso, in cui le idee non proliferino in “pensieri unici” veicolati velocemente dai nostri smartphone a chi la pensa già come noi, ma evolvano nell’interazione con gli altri.

Resistere deve significare oggi per un giovane del Sud rimanere (o ritornare) nella propria terra non per contingenza, bensì per scelta. Trovare questo coraggio non solo nel sole o nella calorosità della nostra gente, ma nella ferma convinzione che anche qui si possa avere un futuro concreto. Resistere significa lottare affinché questo luogo diventi migliore, pur riconoscendone l’identità immutabile e le sue peculiarità.

Resistere per un giovane d’oggi deve voler dire non smettere di sognare, coniugare disincanto e coraggio: quello di mettere in discussione tutto non facendo macerie del passato, ma interpretando il senso della storia per vivere il presente.

Resistere non deve voler dire necessariamente sposare una causa o un partito politico (sia esso anti o filo governativo), ma comprendere che la nostra libertà sarà tanto più affermata quanto lo sarà la capacità d’interpretare la realtà con lo strumento della conoscenza.

A questa resistenza siamo chiamati tutti, andando al di là delle ideologie. A fare il resto penserà la democrazia, che lungi dall’essere ammalata, se usata in maniera consapevole rimane ancora oggi il migliore strumento per consentirci ancora una volta di uscire a riveder le stelle.

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