Siete mai stati in Polonia, in un ristorante polacco o in una cucina di un amico che vi ha fatto assagiare i pierogi, pyzy, kluski, kopytka, o naleśniki? È probabile che, da siciliani, anche se non avete mai sentito nominare queste pietanze, molte di esse incontreranno il vostro gusto. Sì, perché al di là delle enormi differenze climatiche, culturali e storiche, quando si parla di gastronomia Italia e Polonia si trovano unite da una specie di affinità elettiva. La stessa fascinazione funziona in senso inverso e fa sì che nel mio paese pasta, pizza, schiacciata, cipollina, arancino, gnocchi e ravioli siano diventati icone ormai irrinunciabili. D’altra parte, se – come ha notato su queste pagine Giuseppe Attardi – la cucina siciliana si contraddistingue per «piatti poveri nati dalla necessità di arrangiarsi con il poco», anche quella polacca non è da meno. Questo comune retroterra, però, non impedisce che i nostri gusti a tavola divergano in modi talvolta imprevedibili e apparentemente inconciliabili. 

I pierogi

Un caso da manuale è quello della carne equina, amatissima nella zona etnea, ma spaventosamente ripugnante, proprio «terribile», per un polacco medio che da sempre percepisce il cavalo come un compagno dell’uomo, simile al cane. Una spiegazione che, con ogni probabilità, sarebbe stata condivisa dallo strutturalista tedesco Edmund Leach, secondo il quale i tabù alimentari sono legati alla «distanza sociale»: risultano quindi «immangiabili» gli esseri troppo «vicini» o troppo «lontani» dall’uomo. L’origine dell’avversione a mangiare il cavallo da parte dei polacchi si potrebbe ricondurre, forse, alla lunga e ricca tradizione cavalleresca derivante dalle antiche abitudini delle tribù nomadi slave, sarmate e scite (come confermato da scoperte archeologiche recenti) che abitavano l’area del fiume Vistola. A vincere la storica ripugnanza dei miei conterranei verso la carne equina fu solo il dramma della guerra e della fame. Così, nella metà degli anni ‘40, la carne di cavallo fece una breve apparizione nelle macellerie polacche, per far fronte al bisogno di una popolazione stremata da un conflitto che aveva lasciato dietro di sé strade coperte di detriti e carcasse di cavalli caduti a seguito dei bombardamenti delle truppe sovietiche.

La karp w szarym sosie

L’ipotesi di Leach della «distanza» potrebbe spiegare anche il disgusto sperimentato dai polacchi al pensiero di mangiare specialità sicule come le lumache, il cetriolo di mare e i ricci. In Polonia, d’altra parte, non ci sono specchi d’acqua caldi a sufficienza per pescare o allevare frutti di mare, tanto che il polacco medio non è nemmeno abituato a immaginarli come possibile condimento per un primo piatto. Del tutto inconcepibile è invece il sugo “al nero di seppia”, il cui colore contrasta con l’idea di qualcosa di fresco e sano.
Non sorprenderebbe che simili obiezioni vengano dirette da un siciliano ai piatti della nostra tradizione piuttosto peculiari. Sarebbe, con ogni probabilità, più d’uno a storcere il naso di fronte ad un piatto di pesce freddo, immerso in un guazzetto dal colore sospetto, come l’amatissimo – almeno in Polonia – karp w szarym sosie [la carpa nel sugo grigio], condito con dell’uvetta; oppure ad essere allontanato dal pungente odore dei crauti, star dei bigos, in cui il cavolo fermentato si accompagna a funghi, pomodori e carne cotta nel vino rosso. Piatti, questi, difficilmente appetibili per un siciliano, abituato ad avere tutto l’anno frutta e verdura fresche, lusso impensabile per noi polacchi che facciamo fronte ai nostri freddi e lunghi inverni con tecniche di conservazione che a voi sembrano così strane. 

I kaszanka

Accanto a questi casi limite, però, ce ne sono diversi per i quali una spiegazione della reciproca avversione è meno agevole. Si tratta di quei cibi simili, preparati con le stesse parti degli animali, e persino in modi analoghi, anche se con le inevitabili sfumature locali. Stiamo parlando, ad esempio, del sangeli (sanguinaccio) siciliano e della kaszanka polacca, preparata da kasha (di grano saraceno o altra) cotta nel sangue con delle frattaglie di maiale in forma di una salsiccia grossa, oppure dello zuzzu e del galart o auszpik [dal dialetto di Poznan], un pezzo di carne di gallina con uova, piselli e carote, tutto in gelatina di brodo. Sulla scia del precedente ragionamento, non trova, perciò, fondata motivazione la ritrosia dei turisti polacchi in visita nell’isola ad immergersi nel denso fumo emanato dalle griglie per assaggiare le stigghiole di agnello; né, di contro, può essere facilmente spiegabile l’avversione di un siciliano che dovesse capitare, insieme con amici polacchi, nel bosco di Pomerania, in una notte d’agosto, verso le kaszanka e kiszka grigliate con cipolla.

Ultimo, ma non per importanza, il mistero relativo al frequente disgusto dei siciliani per una variante di un piatto amatissimo della tradizione polacca: i pieroghi alla frutta serviti con burro fuso o con panna acida, cosparsi di zucchero, mangiati caldi a pranzo. Colpevoli, sospetto, di violare la “norma” culinaria che vieta di accompagnare la pasta alla frutta o il dolce con il salato. Ma, mi domando, lo stesso paradigma non viene violato anche dalle vostre torte alla frutta o dagli involtini ripieni di prugne? Forse, prima ancora dei tabù, a limitarci sono dei semplici pregiudizi.

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