Per anni, scorrendo tra le pagine delle sue agende personali, ci si è chiesti a cosa facesse riferimento il giudice Rosario Livatino con la sigla “S-T-D”. Lungi dall’essere un’indicazione a proposito di qualche malvivente che lo perseguitava, come all’inizio sospettò chi indagò sul suo omicidio, quelle lettere racchiudono tutto il senso della vita, privata e professionale, del magistrato di Canicatti: Sub tutela Dei. Oggi, quella formula rivive in una mostra dedicata alla straordinaria figura dell’uomo di legge e di fede ucciso dalla mafia nel 1990. L’esposizione si inserisce nel filone di incontri dedicato al tema della giustizia riparativa “Oltre la pena. Incontrare persone. Ricomporre relazioni”, promosso dalla Fondazione Francesco Ventorino, dall’Arcidiocesi di Catania, dal Centro Culturale di Catania e dalla Fondazione Sant’Agata, e sarà fruibile dal 17 al 25 febbraio presso la Galleria di Arte Moderna di Via Castello Ursino, 26, Catania, dalle ore 9.00 alle ore 13.00 e dalle ore 14.30 alle ore 19.00. «Volevamo rendere omaggio ad una figura che ha trasformato l’ordinarietà della sua vita in un’esperienza di fede e testimonianza. L’intento – spiega l’avvocato Paolo Tosoni, tra i curatori della mostra – è offrire un quadro esaustivo delle qualità umane e professionali di Livatino, in modo tale che ciascuno dei visitatori possa lasciarsi ispirare dalla sua figura esemplare». Del giudice di Canicattì, infatti, la mostra scandaglia attentamente ogni aspetto della formazione, dell’operato professionale e del costante accostamento alla fede. 

L’ANIMA E LA LEGGE. C’è spazio per ripercorrere la sua giovinezza e il suo precoce impegno con Azione Cattolica in una Sicilia fortemente afflitta dalle tentacolari infiltrazioni mafiose. Ma anche per la profonda umanità che lo spingeva a guardare con occhi carichi di pietà anche il peggiore dei malviventi, senza mai cedere alla tentazione del rancore. «Compito del magistrato – affermò Livatino durante la conferenza “Fede e diritto” all’Istituto Suore vocazioniste di Canicattì del 30 aprile 1986 – non deve essere solo quello di rendere concreto nei casi di specie il comando astratto della legge, ma anche di dare alla legge un’anima, tenendo sempre presente che la legge è un mezzo e non un fine».  

RESTITUIRE DIGNITÀ. Si passa poi alle testimonianze che restituiscono la dimensione di quanto complicato fosse, all’epoca, indagare sui reati di mafia. In un contesto socio-culturale profondamente asservito alle logiche criminali e aduso all’omertà, limitato per di più da un codice normativo ancora privo di strumenti che in seguito si sarebbero rivelati fondamentali, Livatino seppe ritagliare alla giustizia il suo legittimo spazio con intelligenza, passione e umiltà. Nelle parole degli amici e dei parenti che hanno voluto condividere degli aneddoti personali, emerge come, nonostante la grande sete di verità che lo contraddistingueva, egli non si facesse mai distogliere dal proposito di inseguire il bene comune. Né dalla convinzione che tutti gli uomini sono apparentati da una dignità di fondo che va valorizzata, anche a fronte delle colpe di cui ci si è macchiati.

IL DRAMMA DELL’AGGUATO. Fu proprio il suo amore per il bene comune ad attirargli le attenzioni dei mafiosi. Le installazioni, in questo senso, ricostruiscono con dovizia di particolari le ragioni alla base del suo assassinio e le efferate modalità con le quali fu compiuto. Fondamentale, a tal proposito, la testimonianza oculare di Piero Ivano Nava, che quel giorno, trovandosi in Sicilia per ragioni di lavoro, assistette alle fasi dell’omicidio e di cui uno dei pannelli ricostruisce la sua difficile storia. Benché, infatti, il suo contributo fosse stato decisivo per l’identificazione dei killer, lo Stato non fu capace di proteggerlo adeguatamente (solo nel 2001 entrarono in vigore i primi provvedimenti a tutela dei “testimoni di giustizia”), costringendolo ad una vita da fuggiasco che dura ancora oggi. 

L’EREDITÀ DEL BENE. Viene, infine, ricostruita la prassi di beatificazione, culminata nella celebrazione tenutasi nella Cattedrale di San Gerlando ad Agrigento. Ma anche l’eredità che la parabola esistenziale di Livatino ha saputo imprimere nel nostro tempo, specie in relazione alla lotta portata avanti dalla Chiesa contro la mafia. Al ricordo di tanti uomini e donne che hanno avuto modo di conoscerlo, si aggiungono le foto di due lettere dal grande valore. Furono scritte, infatti, da Salvatore Calafato e Domenico Pace, rispettivamente uno dei mandanti e degli esecutori dell’omicidio, e contengono parole di profondo e sincero pentimento. Quasi un cerchio che si chiude. E che getta ulteriore luce sull’eccezionalità della sua vita. Perché, come disse Papa Francesco in un discorso tenuto nel 2019 presso il Centro Studi Rosario Livatino e come uno dei pannelli della mostra puntualmente ricorda, «Livatino è un esempio non soltanto per i magistrati, ma per tutti coloro che operano nel campo del diritto: per la coerenza tra la sua fede e il suo impegno di lavoro, e per l’attualità delle sue riflessioni».


La presentazione

Un momento della presentazione al tribunale di Catania. Da sinistra: don Piero Sapienza, Claudio Sammartino, Paolo Tosoni, Alfio Pennisi

Si è svolta il 16 febbraio, presso la sala dell’Adunanza del tribunale di Catania, la conferenza di presentazione dell’esposizione dedicata al magistrato di Canicattì. L’incontro, moderato dal prof. Alfio Pennisi, ha visto oltre alla partecipazione del curatore, l’avvocato Paolo Tosoni, gli interventi del già prefetto della Repubblica Claudio Sammartino e di don Piero Sapienza, Direttore dell’Ufficio Diocesano per i problemi sociali e per il lavoro e di numerose figure istituzionali. «Livatino – ha sottolineato nel suo intervento Sammartino – ha testimoniato con il suo comportamento il rispetto per dignità e libertà di ogni uomo e fiducia sul fatto che chiunque può risollevarsi dagli errori. La sentenza non è l’ultima parola ma da lì comincia un’altra storia». Gli ha fatto eco il Procuratore della Repubblica Carmelo Zuccaro: «Essa tenta di rispondere al delicato tema della frattura tra colpevole e offeso. Livatino ci ricorda la funzione dell’emenda che deve guardare alla possibilità di cambiamento della persona, del criminale. Non dobbiamo né darlo per scontato né rinunciare alla speranza che possa avvenire». L’arcivescovo di Catania, monsignor Luigi Renna, ha ricordato invece l’adesione al Vangelo di Livatino: «Stava nella Chiesa con coerenza. La sua professione fu ispirata dalla Costituzione e animata da visione di fede». Da qui la beatificazione di un uomo martire della giustizia e indirettamente della fede. «In quanto cristiano – ha aggiunto don Piero Sapienza – sapeva che l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio e che in tutti, anche nel criminale, c’è la sua scintilla. L’impegno di Livatino coniugava giustizia e carità. La giustizia è necessaria ma non sufficiente. C’è bisogno della carità, dell’amore verso il prossimo». 

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