Sulle ali di Keaton, Chaplin e Gary Cooper: quando Sciascia sognava di fare il regista
«Sono solo un narratore, e il cinema sembra essere il mio mezzo. Mi piace perché ricrea la vita in movimento, la esalta. Per me è molto più vicino alla creazione miracolosa della vita che, per esempio, un libro, un quadro o la musica. Non è solo una forma d’arte, in realtà è una nuova forma di vita, con i suoi ritmi, cadenze, prospettive e trasparenze. È il mio modo di raccontare una storia». Quella di Federico Fellini nei confronti del cinema non è appena una sincera confessione d’amore. È anche, soprattutto, una sorta di dichiarazione di dipendenza. Una candida, inquieta ammissione di impotenza verso il travolgente potere immaginifico di quella frenetica dimensione parallela. Verso la sua totalizzante capacità di fondere il fittizio ed il reale in una lega completamente nuova e a tratti imperscrutabile. Per lungo tempo – e certamente non si tratta di un istinto del tutto sopito – la settima arte è stata associata quasi ad una ruota delle meraviglie, al luogo mitico e misterioso nel quale le fantasie più stravaganti, i pensieri più reconditi e i sogni più fantascientificamente irrealizzabili potevano trovare compimento. Di sicuro, benché a lungo sia rimasta una passione poco approfondita dalla critica, così deve essere stato per un giovanissimo Leonardo Sciascia, che dalla sua seggiola del piccolo teatro di Racalmuto adibito a cinematografo sognava, tra le gag di film muti e il carisma di indimenticabili divi hollywoodiani, di diventare un giorno uno sceneggiatore. O, perché no, un regista. Per tutta la vita, di quei ricordi che profumavano di pellicola, come il piccolo Totò di Tornatore, lo scrittore siciliano fece gelosamente tesoro, tornandovi di tanto in tanto per scrivere pagine di rara raffinatezza. Sparsi lungo i viali della vita, infatti, sono poi riaffiorati veri e propri soggetti pensati per la trasposizione, ma anche ritratti, riflessioni tecniche e filosofiche sul rapporto tra scrittura e narrazione visuale, rimpianti ed amare considerazioni sulla snaturalizzazione moderna del medium. Pagine di straordinario valore, che restituiscono uno Sciascia per certi versi inedito e vicino, anche da questo punto di vista, all’amico Bufalino, che di cinema scrisse parecchio, com’è risaputo.
Pagine che da un paio d’anni a questa parte è possibile leggere in Questo non è un racconto, volume pubblicato da Adelphi e curato da Paolo Squillacioti, nel quale sono confluiti scritti sciasciani compresi tra il 1958 e il 1989. «Per me il cinema – dichiarò lo scrittore – allora era tutto. TUTTO. Ed era soprattutto memoria felice. Una galleria di volti, di pose, di sorrisi magnetici che nei suoi testi riappaiono come fidati compagni di sempre. C’è Buster Keaton, malinconica e stravagante stella del cinema muto, compianto per la paradossale morte a cui andò incontro a metà degli anni ’60, quasi prigioniero del suo personaggio da grande schermo. C’è anche lui: l’immancabile, l’incommensurabile Charlie Chaplin e la sua tragicomica maschera di Charlot, «con un che di cattivo, di ingiusto, di spietato», quale elogio di un’ironia che assurge ad un livello quasi etico. Non manca nemmeno la fierezza di Gary Cooper, volto del Vecchio West in bianco e nero ed emblema di un portamento che Sciascia paragonò a quello delle figure del mito, senza tempo e senza confini: «Questo eroe della grande e libera America noi per un momento lo abbiamo visto sul nostro reale orizzonte, sull’orizzonte della nostra storia, sulla frontiera che separava il fascismo dalla civiltà. Il sergente della divisione Texas che, in un pomeriggio dell’estate 1943, entrava con la sua pattuglia in un paese della Sicilia, per un momento realizzò il nostro mito, confondendosi con l’immagine di Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco, l’uomo che avanza a ristabilire il diritto, la legge, la dignità e la libertà degli uomini».
Lo immaginava così, stagliato su una strada polverosa, a prendere le redini di un copione che mai vide la luce. Perché Sciascia non si limitava a scrivere di cinema. Il cinema lo immaginava, lo tratteggiava. Lo intravedeva nei drammi, nei grandi eventi della storia, nella genialità incompresa. Guardava, in questo senso, con profonda ammirazione al coraggio di Serafina Battaglia, la prima testimone di giustizia donna che perse tutto a causa degli scontri tra cosche e che decise di affidare il suo desiderio di vendetta alla forza della legge. Si lasciava trafiggere dallo sguardo spiritato di Ivan Mozžuchin, interprete leggendario de Il fu Mattia Pascal di Marcel L’Herbier morto misteriosamente in una camera d’albergo, circondato dalle lettere amorose delle sue ammiratrici. Ripercorreva, quasi con affettuosa compassione, la vicenda surreale dell’austriaco Erich von Stroheim, ostracizzato in patria perché ritenuto troppo complesso e prolisso, e passato alla storia come uno dei più grandi cattivi nella storia del grande schermo. Fino al momento del distacco, in cui solo – non a caso – Fellini, all’interno di un mondo progressivamente tramutatosi in industria, sapeva rinverdire parzialmente gli entusiasmi giovanili. Difficile riprendersi dalle delusioni. Come accade con tutte le cose che si amano troppo.
Ma dal buio fiabesco della sala Sciascia non uscì mai del tutto. Né mai il distacco dagli occhi di Louise Brooks o di Bette Davis fu irreparabile. Sarà anche stato qualcosa di diverso da un racconto, come il titolo del volume sembra quasi voler giurare. Ma non è, forse, poetizzare quei momenti da spettatore, associarli alla trama della propria esistenza, già un modo per consegnarli all’eternità della narrazione?