«La musica deve essere apprezzata come forma di espressione, a prescindere dal suo genere». Sono le parole dell’arpista americana Mary Lattimore, che da oltre dieci anni porta in tutto il mondo la sua arte, frutto della commistione di classica contemporanea, urban e indie rock. La musicista, che stasera suonerà a Catania presso Zo Centro Centro Culture Contemporanee per la rassegna di musica sperimentale “Partiture”, racconta di aver dovuto fare i conti con la categorizzazione della sua musica come “ambient”, un’etichetta che può stare stretta: «Non so se sono molto d’accordo con questa definizione. Quando faccio la mia musica, mi limito a utilizzare i sound che mi piacciono senza etichettarli».

Mary Lattimore ha cominciato il suo cammino musicale studiando arpa classica all’Eastman School of Music di Rochester, New York. Contestualmente, si faceva strada la passione per il rock, dando origine a un’eclettica e originale personalità musicale. Ma l’arpista non ha mai dimenticato l’insegnamento tratto dagli studi classici: «Il conservatorio mi ha insegnato a interpretare la musica in maniera personale – racconta –. I pezzi classici sono stati suonati milioni di volte da persone diverse, di generazioni diverse: quando ti trovi alle prese con una musica così tanto eseguita non puoi semplicemente suonare le note, devi trovare un modo per fare tua quella musica».

Questa sera la musicista porterà il suo carisma sul palco di Zo, a Catania, dove proporrà alcune sezioni di improvvisazione: «Prendo molta ispirazione dal luogo in cui suono, cerco di infondere nella mia musica le vibes del posto. Non penso di avere mai suonato una canzone due volte allo stesso modo». Per l’artista sarà dunque una performance irripetibile, considerato anche che è la sua prima volta in Sicilia. Ad ogni modo, la serata sarà incentrata sui brani tratti dal suo ultimo lavoro discografico, “Goodbye, Hotel Arkada”, un album che la musicista descrive come «una sorta di diario per cristallizzare le sensazioni e poter ricordare come mi sono sentita in certe occasioni. È come un modo per portare rispetto ai momenti che passano».

L’album, infatti, celebra la bellezza dell’effimero, di ciò che è stato vissuto e poi andato perduto. Celebra, tra le tante cose, anche l’invecchiamento, l’inevitabile e spaventoso scorrere del tempo: «Io ho paura di invecchiare, ho 43 anni e mi sento già un po’ stanca. Però sono anche entusiasta di scoprire cose e luoghi nuovi, ciò mi mantiene giovane. Ma è abbastanza normale avere paura di invecchiare». E, in fondo, anche la musica stessa è soggetta al passare del tempo: «C’è un aspetto della mia musica che ho perso e mai più ritrovato – spiega Lattimore – ed è l’innocenza, il fare musica senza sapere veramente cosa diventerà. L’esperienza è un’arma a doppio taglio, perché insegna ad avere il controllo di quello che si fa, ma si perde quella purezza e quella libertà che si ha all’inizio. Lavoro duramente per cercare di mantenere un approccio “infantile” alla musica, ma non c’è niente da fare: tutto cambia».

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