I giovani chiamati
a svegliare una terra
assopita nel romanzo
di Giuseppe Rizzo

Basta leggere le prime pagine di Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia per accorgersene: i luoghi comuni nella letteratura sicula contemporanea non sono più bene accetti. È per questo che l’autore agrigentino fa un ritratto della Trinacria finalmente disincantato

In Sicilia non si può vivere, anche perché la Sicilia in realtà non esiste. C’è chi si racconta ancora la favoletta di un’isola illuminata perennemente dal sole e dai valzer de Il Gattopardo – ma sono per lo più gli anziani, con i loro ricordi distorti e un’idea della regione che ruba impropriamente spunti a Pirandello, a Camilleri, a Verga. Oppure i turisti, loro sì che vogliono bene allo stivale dello Stivale. La sanno inquadrare alla perfezione dietro le loro Reflex, arrivano con viaggi organizzati e rimangono estasiati da cannoli, arancini, cassate. Tornano a casa e raccontano di mari cristallini e gente calorosa, ma non sanno che la Sicilia, quella vera, non l’hanno vista affatto.

Non si sono mai addentrati più in là degli itinerari suggeriti su internet o dalle guide turistiche, non sanno cos’ha fagocitato l’entroterra e non hanno reperti fotografici di edifici fatiscenti, parchi assediati dall’immondizia, bambini che non impareranno mai l’italiano o paesi interi che stanno con due piedi in una scarpa: quella del “pidocchio” di turno. Così, infatti, lo scrittore agrigentino Giuseppe Rizzo chiama i mafiosi, a propria volta diversissimi dallo stereotipo diffuso in tutto il mondo dopo Il Padrino o a seguito di attentati a magistrati e giornalisti. Basta leggere le prime pagine del suo Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia per accorgersene, d’altronde: i luoghi comuni nella letteratura sicula contemporanea non sono più bene accetti.

È così che emerge un ritratto della Trinacria finalmente disincantato, che non si limiti a lodare rovine greche e marionette. Un lungo dialogo intergenerazionale, una lotta alla sopravvivenza, una provocazione bella e buona in un linguaggio sporco e concreto, che non scimmiotta né la lingua trasmessa in televisione né quella delle opere di Nino Martoglio: i personaggi si esprimono come lo farebbe un pescivendolo, una contadina, un pensionato. Non ci sono mezzi termini, né specialmente mezze misure. Dal romanzo devono prendere forma con sicurezza e dignità le brutture di una terra ingabbiata in una visione romantica della sua stessa decadenza, e ci riescono a pieno titolo.

Dopotutto, a questa operazione di svelamento contribuiscono in massima parte i protagonisti della storia: Andrea, Martina e Marco, detti rispettivamente Osso, Pupetta e Gaga. I tre sono originari di Lortica, hanno circa trent’anni e sono esuli per scelta. Tornano a casa sempre più di rado, magari durante le feste consacrate o in occasione di qualche impegno familiare. Per il resto, hanno messo radici altrove, alla ricerca forse di un lavoro redditizio, di un amore omosessuale, di un’istruzione migliore – o forse solo di un contesto meno contaminato, più libero da certe oscure dinamiche di paese per le quali la cultura dell’omertà è ancora dura a morire.

In una cornice appositamente sarcastica, a tratti amara, i tre rappresentanti dei giovani di oggi decidono però di fare sentire la propria voce contro un sistema traviato ormai da troppo tempo. Si mettono d’accordo per giocare uno scherzo al sindaco e, in men che non si dica, si ritrovano al centro di una faccenda ben più seria: hanno da assumersi delle responsabilità, da rischiare la pelle, da continuare ad affermare la loro diversità e un dissenso unanime a una microsocietà corrosa e senza prospettive di miglioramento, oppure lasciarsi soffocare da una “fiumana del progresso” che miete ancora molti morti.

Con un excursus storico e geografico all’insegna della memoria e della concretezza, dunque, nel 2013 si toccava quindi con mano in tutte le librerie del Paese un’isola riesumata dal suo torpore poetico e alimentata da una linfa nuova, fangosa, eppure scevra da qualsiasi cliché. Sei anni dopo, a seguito di un successo editoriale notevole e di una battaglia mai finita, la Sicilia continua a opporre resistenza, anche se con sempre meno energia. Protegge problemi atavici e si offende con chi la attacca, ma così facendo amplifica sempre di più la voce di chi dissente, la diffusione di un romanzo che chissà ancora quanti spunti di riflessione offrirà a chi di arrendersi a certi schemi non ha ancora nessuna intenzione.

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Traduttrice di formazione, nonché editor, correttrice di bozze e ghostwriter, Eva Luna Mascolino (Catania, 28 anni) ha vinto il Campiello Giovani 2015 con il racconto "Je suis Charlie" (edito da Divergenze), tiene da anni corsi di scrittura, lingue e traduzione, e collabora con concorsi, festival e riviste. Ha conseguito il master in editoria di Fondazione Mondadori, AIE e la Statale di Milano, e ora è redattrice culturale - oltre che per Sicilian Post - per le testate ilLibraio.it e Harper’s Bazaar Italia. Lettrice editoriale per Salani, Garzanti e Mondadori, nella litweb ha pubblicato inoltre più di 50 racconti.

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