Anche l’Italia ebbe diversi luoghi di detenzione degli ebrei. Il principale campo di concentramento (in termini numerici) fu creato a Ferramonti, in Calabria. Molti non lo sanno, altri vogliono dimenticarlo, eppure è ancora oggi visitabile ed è un luogo di memoria delle persecuzioni subite dagli ebrei nel nostro paese. Oggi è un Museo che custodisce il ricordo di persone che, pur nell’atroce sofferenza della prigionia, seppero tenere viva per tutti la fiamma dell’umana dignità. Qui ripercorriamo alcuni momenti della storia di Ferramonti, che poi è il mosaico di tante storie personali. Ci vengono in soccorso alcune testimonianze inedite tratte dagli archivi del CDEC (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea). 

Le leggi razziali, gli arresti degli ebrei stranieri e il campo di concentramento italiano

Nel 1938, a seguito delle leggi razziali, molti degli ebrei stranieri furono costretti a lasciare l’Italia. Nel 1940 per quelli ancora presenti, circa 3000, scattò l’ordine di arresto. La maggior parte fu internata in un campo di concentramento appositamente costruito. Si scelse di collocarlo in Calabria, proprio perché era la regione più periferica della penisola. In provincia di Cosenza, a Ferramonti di Tarsia, fu destinata un’area demaniale in un sito di bonifica, ancora malsano. Vi vennero erette 92 baracche di varia pezzatura. I primi arrivi si ebbero nell’estate del 1940, a lavori non ancora ultimati. Si trattava di persone arrestate nelle città del centro e del Nord Italia. Occuparono le baracche già pronte e furono impiegate nei lavori di quelle ancora in costruzione. Erano perlopiù uomini adulti. Molti erano professionisti cui nei paesi di origine l’esercizio dell’attività o l’accesso agli studi universitari era stato inibito. 

La complessa geografia di Ferramonti: babele di lingue, mosaico di culture

Tra il 1940 e il 1942 le camerate del campo si popolarono di profughi di varia provenienza, intercettati lungo avventurose rotte migratorie e temporaneamente reclusi nelle località allora presidiate dall’esercito italiano in Libia, Albania, Slovenia, Rodi. A Ferramonti furono internate circa 8000 persone. In diversi periodi il campo fu occupato fino alla sua capienza massima di duemila posti. La composizione degli internati andò man mano diversificandosi: uomini e donne di tutte le età, famiglie con bambini, gente di tutti i ceti sociali; non solo ebrei, ma anche altri ritenuti “nemici del fascismo”, secondo l’evoluzione dello scenario politico e bellico. A Ferramonti si trovarono a convivere tedeschi, austriaci, polacchi, cecoslovacchi, ungheresi, jugoslavi, cinesi: una babele linguistica (solo in parte superata dal ricorso alla lingua yiddish); una grande diversità culturale e religiosa. Agli ebrei si erano aggiunti cristiani ortodossi e cattolici. Le leggi garantivano agli internati il diritto di culto, la cui pratica nel campo era assicurata dalla presenza stabile di ministri delle varie religioni. Vi erano diversi rabbini, un archimandrita e monaci ortodossi. Per rispondere all’esigenza espressa dagli internati cattolici, nel 1941 il nunzio apostolico Mons. Borgoncini-Duca aveva inviato padre Callisto Lopinot, un cappuccino alsaziano che parlava fluentemente cinque lingue.  

Prigionieri impotenti in una paradossale isola di pace: la testimonianza di Samuel Avissar

L’organizzazione del campo di concentramento di Ferramonti fu meno disumana che in quelli gestiti altrove dai nazisti. Non ci furono torture, esecuzioni, ulteriori deportazioni. Il comandante e le guardie di pubblica sicurezza che avevano in carico la gestione di Ferramonti, per quasi tutto il periodo di attività del campo, ebbero rispetto dei prigionieri. Ne dà testimonianza Samuel Avissar il quale ricordando la sua esperienza di internato riferisce di aver ricevuto “un trattamento straordinariamente amichevole”, manifestando una considerazione apparentemente paradossale: «Quando ripenso a Ferramonti, non manco mai di notare che questo campo di concentramento, in fondo, fu uno dei minori fra i terribili della seconda guerra mondiale. Ogni ferramontese dovrebbe quasi ringraziare il provvedimento che lo confinò in un’isola di pace, sottraendolo al mare di distruzioni e di stragi che ribolliva tutt’intorno”. Samuel non dimentica l’oppressione comunque subita le condizioni di vita misere e per “l’incertezza del futuro, l’ansia per i familiari dispersi, l’apprensione per l’esito della guerra e la sensazione di essere prigionieri e impotenti”, ma si trova anche a ricordare che “ci fu data una prova della gentilezza e dell’umanità degli italiani, a dispetto della campagna antisemita che il governo fascista conduceva da alcuni anni». 

La convivenza tra gli internati: prove tecniche di solidarietà 

Quella di Ferramonti si costituì da subito come una comunità autosufficiente che provava ad autogestirsi. Gi internati si prodigavano nei diversi lavori: il servizio mensa, gli approvvigionamenti alimentari, le pulizie, i lavori di sartoria, piccolo artigianato… Fu avviata una scuola per i bambini, si attrezzò una biblioteca. Si praticavano l’istruzione religiosa, il teatro, altre attività culturali e sportive, la musica. In una sua testimonianza l’ingegnere polacco Marco Babad, capocamerata nel periodo 1941-1942, ricorda: «Tra noi internati c’erano il Maestro Law Mirsky e tutti i giovani componenti del coro della sinagoga di Belgrado. Per merito loro si organizzavano concerti con solisti, ai quali intervenivano anche i familiari del direttore del campo». Ciascuno offriva alla piccola comunità quel che sapeva fare, dai diversi medici presenti agli operai più umili. Babad ricorda che «l’abilità dei contadini cinesi era eccezionale, per cui fu permesso loro di coltivare ortaggi nei due spazi tra le loro baracche». Il denaro che il governo italiano metteva a disposizione per gli alimenti degli internati era del tutto insufficiente. Così la Direzione autorizzò alcuni di essi a lavorare a pagamento presso aziende agricole della zona, così da poter acquisire altre risorse per Ferramonti. 

I bambini nel campo: «Odio la guerra. Vorrei esser un uccellino libero nel cielo»

Da parte di tutti un’attenzione speciale veniva prestata ai bambini, per alleviarne il tremendo disagio fisico e psichico, così espresso in una pagina del taccuino di Gisella Weiss, allora tredicenne:  «Come odio la guerra che ci ha confinati in un terreno non più grande di due ettari. Tutto intorno al campo ci sono delle guardie che, col fucile sulle spalle, sono pronte a sparare contro chiunque tenti di fuggire. Spesso guardo con invidia gli uccellini che svolazzano spensieratamente dove vogliono, e vorrei anch’io diventare un uccellino per respirare l’aria libera. Ecco che cosa ci manca: la libertà! Ed è terribile pensare che siamo stati confinati qui perché l’Italia non aveva fiducia in noi. Ciò è ancora più terribile per me che sono nata in Italia e che ho amato il mio paese come ogni buon cittadino italiano». E ancora: «Le giornate sono tutte uguali, le faccende sempre le stesse, si vedono sempre le stesse bianche baracche, le stesse facce in apparenza allegre, ma che nascondono nel cuore quasi sempre la nostalgia della perduta libertà».  

Gli aiuti esterni, senza discriminazioni: La Mensa dei Bambini di Israel Kalk e Pio XII

Aiuti giunsero anche dall’esterno, innazitutto dalla “Mensa dei bambini”, un’opera caritativa fondata a Milano dall’ingegnere lituano Israel Kalk. Questi, ancorché ebreo, era ancora in libertà in quanto sposato a un’italiana.  Kalk si era dedicato a sostenere i figli dei profughi e degli internati e aveva preso a cuore la comunità di Ferramonti, inviando cibo, alimenti, giocattoli per tutti i bambini senza discriminazioni di nazionalità o fede religiosa. Kalk andò in persona a Ferramonti, portando i doni della Mensa e organizzando un evento di festa. Lo stesso accadde anche da parte cattolica. Padre Calisto inviava in Vaticano i suoi rapporti, esprimendo i fabbisogni della comunità: denaro, alimenti, vestiario, medicine…Puntualmente arrivavano, e venivano condivisi tra tutti.  Per due volte il Nunzio visitò il campo. Pio XII inviò persino un harmonium, a supporto delle funzioni religiose di tutti.

La Pasqua del 1942 a Ferramonti, nel racconto di Arthur Lehmann

Il resoconto della Pasqua del 1942 a Ferramonti, allora annotato da Arthur Lehmann (architetto tedesco, 65 anni, uno degli internati più anziani del campo) ci aiuta a capire perché, nonostante gli stenti della prigionia, talvolta Ferramonti potesse apparire come un’isola di pace. Riflette Lehmann: «Pesah: festa della liberazione per gli Ebrei. Pasqua: festa della resurrezione per i cristiani». Una festa di primavera, con la natura che rinasce e si rinnova. Egli annota: «anche gli uomini erano cambiati. Nelle loro anime non c’era soltanto la solennità storica e religiosa; sembrava che ci fosse entrato uno spirito nuovo, lo spirito della liberazione dai vecchi pregiudizi, lo spirito della resurrezione da un formalismo morto, una resurrezione ad una attività nuova e viva».  I greci di confessione cristiano-ortodossa avevano arredato una baracca vuota per i loro riti pasquali. Alla celebrazione della notte di Pasqua, presieduta dall’Archimandrita, vengono invitati gli internati delle altre confessioni, ministri compresi, due rabbini, il frate cattolico. Partecipano anche i funzionari militari e civili del campo. I volti sono illuminati dalle fiamme tremule delle candele. Il rito pasquale si svolge per due ore e si conclude con il regalo delle uova benedette. «Tutto ciò – annota Lehmann – faceva di questa manifestazione un avvenimento straordinario, dava il segnale per una liberazione che, se questo caso non fosse rimasto il solo, veramente sarebbe equivalente a una risurrezione». Ma il caso non era isolato. Il rispetto reciproco l’accoglienza dell’altro, erano divenute una pratica normale nel campo, tra gente di nazionalità, cultura e religioni diverse. Così, quando l’anno prima il rabbino di Genova Riccardo Pacifici (martire ad Auschwitz nel 1943) aveva visitato Ferramonti, padre Callisto e l’archimandrita lo avevano omaggiato. Lo stesso era accaduto per la visita di Mons. Borgoncini-Duca, che «era stato festeggiato nel tempio giudaico con un rito ebreo come si conviene ad un principe». 

Il miracolo di un ecumenismo realizzato

Nella notte di Pasqua del 1942 all’ebreo Lehmann si era reso evidente il miracolo di un ecumenismo realizzato. Proprio in un campo confinato, nel luogo concentrazionario della separazione e della discriminazione, nei cuori di quegli uomini si celebrava l’abbattimento dei muri che altrove li avrebbero separati: «In questa notte – scrive Lehmann – sembra che siano state aperte delle barriere che il sentimento giudaico non aveva potuto superare finora. Nel nostro campo avvenne il miracolo che i rappresentanti della comunità israelitica si avvicinavano alla gente di altra religione. E questo miracolo dell’uguaglianza di tutti gli uomini, la conoscenza di questo fatto naturale, essendo radicato negli uomini stessi sembra quasi più grande della separazione. Dopo aver visto ed ascoltato come il prete dignitoso ed incanutito benediva la sua comunità nella quale comprendeva anche noi citando anche i nostri nomi e la nostra presidenza religiosa, la onorava ed infine la congedava con ringraziamento, uscivo nella notte buia, sopra di me c’era il cielo brillante di stelle, la luna luminosa e ora credevo di udire le campane di Pasqua…Liberazione e risurrezione sembrano essere diventate una unità». 

Anche la musica fa miracoli e abbatte i muri

L’indomani mattina è la comunità cattolica degli internati a celebrare il rito pasquale. Lo presiede padre Callisto. Un altro miracolo lo fa la musica. Anche stavolta sono invitati i rappresentanti delle altre confessioni, prendendo parte attiva nell’esecuzione di una Messa per Coro di Lorenzo Perosi. «Anche qui – annota Lehmann – il conoscitore udiva il suono della fratellanza attraverso le sante armonie; poiché quest’opera cantata da un triplice trio, costituito da Tedeschi, Ungheresi, Polacchi, Sloveni ed altre nazionalità era stata studiata e diretta dal direttore del coro della sinagoga, un ebreo, con tutta la dedizione che la musica bella, non facile, ed il testo religioso richiedevano. Si ascoltava questa composizione con i suoi accordi come se fosse venuta da un altro mondo con una profonda commozione. I cantanti prestavano la loro voce non soltanto alla musica, ma ad una devozione interiore». 

L’armistizio del 1943 e la chiusura del campo. E adesso, poveri uomini?

Dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943 le autorità italiane abbandonarono il campo. Il 14 settembre vi fecero ingresso le truppe alleate ed esso continuò a funzionare come struttura di ospitalità a conduzione ebraica fino alla chiusura, avvenuta l’11 dicembre del 1945. Per gli ex-internati ora iniziava una nuova avventura, non meno difficile da affrontare: era stata riconquistata la libertà, ma c’erano una vita da ricostruire, un lavoro da inventarsi, una patria da riconoscere, dei cari da ritrovare, tanti morti da piangere. E una memoria da custodire, spesso in silenzio. Per uomini, donne e bambini che erano stati privati dei loro diritti fondamentali ed erano stati bersaglio della bestialità umana, la comunità concentrazionaria di Ferramonti si era costituita come un luogo privilegiato dove poter guardare, forzatamente spogliati da ogni convenzione e pregiudizio, la dignità di sé e degli altri nella sua nuda essenza. Un luogo paradossale, dove le tragiche circostanze avevano aiutato a comprendere una diversa e più profonda cittadinanza universale, al cuore stesso dell’esperienza umana. «Cosenza è in provincia di Ferramonti»: così solevano scherzare gli internati tra di loro.

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