Non c’è niente di più pericoloso, spesso, di una pagina inchiostrata di parole. Regimi e tirannidi tremano, più di quanto gli avversari politici potrebbero mai fare, al suo semplice sfoglio. Perché la sua voce, apparentemente smorzata dal rombo di ciò che letteratura non è, ha la sinuosità di un sibilo che si spande incontrollato. Sussurra alle coscienze per ridestarle dall’inerzia in cui sono amaramente sprofondate, ammalia i sentimenti con la cura di una carezza, per poi, bruscamente, smascherare la menzogna. Più si tenta di eclissarla, di contenerla, di confinarla all’indifferenza o alla pubblica controversia, tanto più essa si impone, straripando oltre quei limiti che non le appartengono. Una pagina. Non è che questo, in molti casi, il baluardo della libertà. Il detonatore più sincero di una ribellione necessaria. Il moto d’orgoglio di intere generazioni. Non stupisce di certo, dunque, se l’attenzione che i sistemi totalitari nel ‘900 dedicarono all’illusione di poter manipolare le opere letterarie fu ai limiti dal capillare, se non del maniacale. Il regime fascista, per esempio, aveva istituito l’altisonante “Commissione per la bonifica libraria”, attraverso la quale, in particolare, il partito mirava ad assicurarsi il controllo e la filtrazione di traduzioni indesiderate. Una prassi ben esemplificata da quanto accadde nel 1941, quando a dover fare i conti con l’occhio vigile di tale organo fu il nostro Elio Vittorini. La cui passione per la letteratura statunitense di lì a poco si sarebbe trasformata in una sfida aperta al paradigma culturale fascista. In un atto di autodeterminazione che rappresentò il primo passo di una nuova, temeraria stagione del pensiero.

All’epoca, infatti, lo scrittore siracusano, nonostante i rapporti che lo legavano alla Mondadori, aveva iniziato a collaborare con Bompiani per la realizzazione di un’antologia di oltre trenta autori a stelle e strisce. Il proposito, certamente, risultava estremamente ambizioso: non soltanto per la quantità di letterati inclusi nel testo, ma anche per la forza simbolica di quell’operazione, che si apprestava ad introdurre per la prima volta molti di loro nel contesto socio-culturale italiano. Per farlo, Vittorini si era affidato al supporto di alcuni appassionati traduttori, tra cui spiccavano Moravia, Montale e Pavese. L’antologia prese così il titolo di Americana e vide effettivamente la luce nel 1942. Ma non, a causa di una vicenda alquanto travagliata, nella forma che il siciliano aveva accuratamente cesellato. Già nel ’41, in fase di revisione, erano arrivate alle orecchie dell’editore, in maniera anche piuttosto ufficiale e pragmatica, le perentorie perplessità di alti esponenti del governo. In una lettera scritta di suo pugno, l’allora ministro della cultura popolare, Alessandro Pavolini, aveva così ammonito: «Resto però del mio parere, e cioè che l’uscita – in questo momento – dell’antologia americana non sia opportuna. Gli Stati Uniti sono potenzialmente nostri nemici; il loro Presidente ha tenuto contro il popolo italiano il noto atteggiamento. Non è il momento per usare delle cortesie all’America, nemmeno letterarie. Inoltre l’antologia non farebbe che rinfocolare la ventata di eccessivo entusiasmo per l’ultima letteratura americana: moda che sono risoluto a non incoraggiare». Il risultato fu un compromesso al ribasso: l’antologia vide la luce, ma senza gli splendidi commenti che Vittorini aveva frapposto tra una sezione e l’altra. Troppo compromettenti, troppo sentite quelle annotazioni critiche. Vennero inserite, in sostituzione, quelle di Emilio Cecchi, accademico ben visto dagli ambienti fascisti, che non perse occasione per esprimere tutte le sue perplessità sul valore intrinseco di quella importazione letteraria. L’edizione, perciò, era stata pressoché stavolta. Ma la sua storia, in barba ad ogni imposizione, era appena iniziata.

La versione originale con i contribuiti di Vittorini intraprese un’altra strada: quella della clandestinità. Negli ambienti anti-fascisti le pagine d’Oltreoceano circolarono intensamente, imponendo straordinariamente la propria influenza. Lo stesso Vittorini, d’altronde, aveva così sintetizzato il senso profondo di quella trasposizione culturale: «L’America non è più America, non più un mondo nuovo: è tutta la terra, una letteratura universale in una lingua sola». Nella densità di pensiero di quelle opere finalmente dissotterrate dall’anonimato della distanza linguistica, lo scrittore siciliano aveva ritrovato tanti dei temi che lo animavano: l’incessante lotta dell’uomo contro la miseria e lo sfruttamento narrata da John Steinbeck; l’ironia brillante e malinconica di Herman Melville; la schiettezza di Hemingway; i ricordi d’infanzia delle avventurose vicende di Jack London. Quell’antologia non fu soltanto la ripicca di un intellettuale militante: fu uno specchio individuale e collettivo. L’immagine riflessa – fino a quel momento tenuta nell’ombra – di intere generazioni.

L’opera venne poi pubblicata nella sua interezza solo nel 1968. Di recente, nel 2023, Bompiani ha provveduto alla sua ripubblicazione. Segno tangibile che, dopotutto, la paura dei regimi è giustificata. Perché la letteratura è così: non teme la forza, non teme la paura. Ripudia il silenzio. E vive dove agli altri è proibito farlo.

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