Ora ironico ora serio, l’ingegnere-filosofo tesse nel suo libro d’esordio un dialogo che, fra pagine aneddotiche contornate da Epicuro, Ciuang-tse e Bertrand Russell, restituisce un vivo affresco della città partenopea e di tutti i “Sud” del mondo

Ortega y Gasset e Madrid, Platone e Atene, Dante e Firenze, Camilleri e Agrigento: vi immaginate letterati e filosofi senza la terra in cui vissero? Vale anche per Luciano De Crescenzo e Napoli. L’ingegnere-filosofo, scrittore, attore e regista italiano sarebbe oggi 91enne: laureatosi in ingegneria idraulica a Napoli e assunto all’IBM di Milano, a un certo punto decise di licenziarsi e assecondare il bisogno latente in ogni uomo, quello di filosofare. Il suo primo libro, “Così parlò Bellavista. Napoli, amore e libertà” (Arnoldo Mondadori, 1977) un best-seller da oltre 600mila copie, è un’opera di filosofia travestita da romanzo (come suggerisce il titolo dal gusto nietzschiano): la filosofia che lui visse in prima persona, quella dei volti della sua gente, che lo spinse fra le braccia dei grandi e insoluti interrogativi della filosofia antica di cui fu un tal divulgatore che nel 1994 Atene gli conferì la cittadinanza onoraria. Nel celebrare il suo compleanno lo ricordiamo proprio con l’opera d’esordio, omaggio alla terra che gli diede genio e natali, da lui elevata a «componente dell’animo umano», fino a scrivere: «Dovunque sono andato nel mondo ho visto che c’era bisogno di un poco di Napoli». Di quale Napoli parlava?

«NAPOLITUDINE». Napoli sono le persone alla stazione che ti vendono qualsiasi cosa, i clacson suonati «solo per sentirsi in compagnia», la gente che non rispetta la fila, il parlare ad alta voce, la radio a tutto volume. Napoli è Gennarino “‘o kamikazze” che «si butta sotto alle macchine per farsi pagare dalle Società di assicurazione» perché anche lui «un tozzo di pane se lo deve pure guadagnare». Napoli sono gli 11mila tifosi che entrano allo stadio senza pagare; è la devozione che antepone ai vaccini la protezione dei santi; è l’emigrato a Milano che vorrebbe patteggiare il prezzo di un tostapane con la caporeparto della Rinascente. È la città in cui la voglia di prendere un caffè è il «bisogno di entrare di nuovo in contatto con l’umanità»: le macchinette che per 100 lire te lo fanno premendo un bottone sono impensabili. Napoli è la città che alle docce dei milanesi, rapide ed efficienti, preferisce le vasche da bagno in cui intrattenersi a pensare. Napoli è la città del presepe «bello quando lo fai o addirittura quando lo pensi» i cui pastori vecchi e usurati hanno sempre una storiella da raccontare.

Luciano De Crescenzo

QUI DOVE LE CORDE SONO TESE. Napoli è anche questo. Passeggiamo per i suoi vicoli: è facile credere che tutti quei panni stesi siano lì per fare festa, come pensa Luigino, un interlocutore di Gennaro Bellavista, professore di filosofia che si diletta a fare il Socrate con i personaggi che colorano le aneddotiche pagine di De Crescenzo. «Il fatto poi che a Napoli queste corde legano tutte le case l’una con l’altra è una cosa veramente importante»: sono il risultato di un colloquio fra i palazzi e quindi il segno dell’amicizia che li unisce. Certo, su quelle corde insieme ai panni e all’amicizia corrono le notizie: l’area partenopea non conosce quella che l’autore chiama “libertà”, cioè la privacy. «Infatti il regno dell’amore avrebbe come capitale Napoli ed un territorio vastissimo che, oltre a coprire la maggior parte delle province meridionali, avrebbe anche alcune roccaforti nel Nord dell’Europa» (mentre Londra, con la sua cura della riservatezza, sarebbe la capitale della repubblica della libertà). A Napoli insomma, scrive l’ingegnere-filosofo, non serve alzare il gomito per aprirsi all’altro, soprattutto nei bassi dove «non c’è privacy, però non c’è nemmeno il malato che resta solo». E qui sta il senso della confessione contenuta nelle prime pagine: «A volte penso addirittura che Napoli possa essere ancora l’ultima speranza che resta alla razza umana». In che modo? Reinvestendo su un altro motore sociale.

LA «TERZA FASE». Anni fa il motore dell’azienda moderna era il bastone: «Tu non lavori? Ed io ti licenzio!». Superata, grazie a qualche legge, la fase del bastone, è subentrata quella della carota. «Tu lavori? Ed io ti premio, io ti pago di più!». Passata anche questa, cosa rimane ad un’azienda? «Il potere! Il potere con i suoi simboli, con la sua liturgia e con le sue medaglie». Napoli può insegnarci a costruire la terza fase, quella dell’amore: «L’amore che io posso avere per il mio capo e che lui può avere per me. Io lavorerò perché avrò desiderio della sua stima e lui lavorerà perché vorrà guadagnarsi la mia. Ma tutto questo sarà possibile solo nell’ambito di una dimensione umana dell’azienda». Corde e bassi non devono allora restare nei quartieri partenopei ma moltiplicarsi nelle aziende, nelle scuole, nelle istituzioni di tutto il mondo. Napoli serve all’equilibrio del pianeta, a ricordarci, come sosteneva Epicuro, che non si può trascurare un piacere primario, l’amicizia, per uno vano, il potere. «Io non voglio pagare il progresso con una perdita d’amore», sono le parole di Bellavista. Quanta Sicilia sfogliamo in queste pagine?

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