Ci sono dei giorni in cui, in un lavoro creativo come quello che svolgo di solito, la scintilla dell’ispirazione si spegne un po’. Resto a fissare lo schermo per interi minuti, poi per una buona mezz’ora, e magari nonostante le idee che ho raccolto o gli spunti che trovo online rimango comunque al punto di partenza.

Perché, di solito, se non ho un certo fuoco interiore ad accendermi, dedicarmi alla stesura di un lungo articolo, raccontare l’ultima uscita editoriale o stendere le domande per un’intervista mi risulta difficile. Anzi, mi sembra quasi contronatura, fatto controvoglia, poco in simbiosi con il modo in cui intanto mi sento realmente.

Negli anni ho provato a “riattivarmi” con vari stratagemmi, anche se quello che in genere funziona meglio e di più è uno e uno solo: divertirmi. Distrarmi sul serio, per un bel pezzo, e magari sgranchirmi le gambe, cambiare mood, trovarmi addirittura in un altro ambiente. Tanto, gli stimoli non arrivano a comando, né tantomeno tornano nel posto in cui erano stati persi.

Al contrario, più mi dedico ad altre attività e più sento di arricchirmi, di riconnettermi con l’immaginazione, di essere pronta a tutto perché, nel frattempo, mi sono concessa di giocare. Uso questo verbo affinché il senso sia chiaro e incontrovertibile: giocare. Non solo staccare la spina o svagarmi, ma attivare proprio le aree del cervello che competono al gaming, in qualunque forma poi si traduca.

Si può quindi intuire il mio stupore, e al tempo stesso il mio sollievo, quando ho scoperto la pubblicazione da parte di Add Editore del saggio Giocare è un’arte. Il gioco come tecnologia trasformativa, scritto dal docente di filosofia C. Thi Nguyen e tradotto in italiano da Andrea Chiarvesio per Add Editore.

Certo, quando sfogliato le prime pagine non ero ancora sicura di che tipo di esperienza mi aspettasse, ma di una cosa ero certa: avrebbe avuto la capacità di ispirarmi, di darmi più cognizione di causa, di fornirmi argomentazioni che pensavo già di poter condividere. Il che mi pare sia un ottimo motivo per lanciarsi nella lettura di un nuovo testo, dico bene?

Ebbene: C. Thi Nguyen non mi ha delusa. Anzi, direi che mi ha perfino sorpresa più del previsto, con il suo stile così esatto e il suo linguaggio così scorrevole. Quasi quasi mi aspettavo un’opera più divulgativa, più pop, e invece mi sono trovata davanti a un ragionamento profondissimo e articolato, in cui l’arte del giocare – per l’appunto – viene sviscerata dal punto di vista antropologico e sociologico, senza lasciare niente al caso.

Mi ha dato più strumenti per capire cos’è che mi fa venire voglia di lasciarmi andare, dove può portarmi un passatempo vissuto con il giusto approccio anche se non sono una giocatrice professionista, e in che misura trasformo la mia vita e il mio cervello – oltre che la mia routine quotidiana – continuando semplicemente a fare quello che mi piaceva di più da bambina.

Mi ha segnata perché mi ha legittimata, Giocare è un’arte, ma anche perché mi ha dimostrato che quanto è valido per me si può applicare anche agli adulti che frequento, a prescindere dal fatto che abbiano già qualche inclinazione al gioco o che sia io, consigliando loro questa lettura, a farli finalmente riprendere. Come ai vecchi tempi, ma con più consapevolezza, e con la sensazione che siano tutt’altro che ore sprecate.

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