Tradizioni, addobbi, regali. E ancora: altruismo, musica a tema, piatti tipici. Sono tante le associazioni di idee per così dire classiche con cui io per prima definisco il Natale. Quantomeno, di solito. Perché quest’anno, forte di alcuni film e serie tv che ho guardato nei mesi scorsi, sono arrivata alle porte di questa festività con uno spirito un po’ diverso rispetto agli anni precedenti.

Nel guardare contenuti horror e thriller nel corso dell’autunno, dopo un po’ di tempo in cui me ne tenevo a distanza, sono infatti giunta ad alcune conclusioni che vi spiego partendo da alcune domande: vi siete mai chiesti cosa renda il Natale così natalizio? Così allegro, spensierato, piacevole? Uno dei fattori che innegabilmente influisce di più, mi sono risposta io, è la presenza (concreta e simbolica) dell’elemento luce.

Non a caso protagoniste indiscusse nelle nostre città sono le luminarie, o le decorazioni che per l’appunto si accendono e si spengono – ma che per lo più si accendono –, per non parlare poi della presenza imprescindibile in ottica religiosa della stella cometa, con la luce che emana, e del concetto stesso di Gesù bambino inteso come Luce divina che si fa vita, ripreso da molti canti popolari e proveniente a sua volta dalle antiche feste della luce a cui si ispira il cristianesimo.

Il Natale, insomma, è magico perché non è buio. Con tutte le connotazioni che ne derivano. E probabilmente, per una persona come me che teme il buio in maniera viscerale, il Natale non poteva che essere – anche per via di molti altri motivi – la festa più attesa dell’anno. Anche se, scriveva il filosofo e poeta Johann Wolfgang von Goethe, «ogni parola che si pronuncia fa pensare al suo contrario». Motivo per cui il Natale porta con sé un accenno di oscurità, e viceversa.

Ed eccoci qui: personalmente, è proprio su questo «e viceversa» che mi sono concentrata stavolta, riflettendo sul fatto che forse, per superare la paura dell’oscurità, dobbiamo conoscerla così a fondo da iniziare ad associarla sempre di più al suo opposto, ovvero a una dimensione calda e accogliente come quella natalizia, che possa incuterci il minor spavento possibile. Così, durante l’Avvento, ho deciso di leggere Storia del buio di Nina Edwards, tradotto da Andrea Ricci per Il Saggiatore.

Una scelta forse controintuitiva, ma che a posteriori posso confermare abbia funzionato. Perché nell’esplorare le radici ancestrali del nostro rapporto con il buio, a partire dall’alba dei tempi fino ad arrivare per davvero alla cultura pop, e perfino al mondo della moda, ho cercato di tenere a mente le vetrine illuminate della mia città, le insegne rosse e verdi che preferisco, le lanterne che tengono in mano i pastorelli del mio presepe.

E a suon di illustrazioni suggestive e di Jingle Bell Rock, mi sono immersa nei misteri scientifici e letterari del buio mentre sorseggiavo un vin brulé, ripercorrendo le ombre dell’arte e delle leggende popolari senza smettere di pensare alle origini di Babbo Natale. È stato assurdo, divertente, quasi paradossale. Eppure, a conti fatti, Goethe aveva proprio ragione.

Storia del buio può rivelarsi davvero il segna-libro perfetto con cui prepararsi a celebrare il 25 dicembre, perché è un saggio accurato e brillante (aggettivo non casuale), che smantellando molte nostre credenze o dando loro un nome e un profilo più definito, ci aiuta a ridimensionare l’angoscia di certi demoni. D’altronde, il senso più profondo della conoscenza consiste proprio in questo, nella sua capacità di smontare, demistificare, fare luce.

In maniera così azzeccata che d’ora in poi le ombre potrebbero non solo smettere di spaventarmi, ma permettermi più di tutto di apprezzare meglio le palline che ho scelto di appendere all’abete di casa mia.

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