Tutte le storie sulle famiglie felici si assomigliano, e quelle sulle famiglie infelici?
Qualche giorno fa stavo dando un’occhiata ai miei Ricordi di Facebook e mi sono resa conto che di solito, negli anni, ho pubblicato pensieri e citazioni con una certa melancolia di fondo. Quando l’ho realizzato mi sono stupita, pensando a me come a una persona di fatto sempre allegra, con la battuta pronta, capace di gestire il malumore.
Perché, allora, il profilo social che uso di più sembra restituirmi un’immagine diversa di me stessa? Domanda a cui mi sono subito risposta prendendo in prestito la frase attribuita a Luigi Tenco, con cui ribatteva a chi gli chiedeva come mai scrivesse solo cose tristi: «Perché, quando sono felice, esco».
Giusto. Non a caso – ho proseguito fra me e me, quasi per non perdere il filo di quel discorso interiore –, la letteratura stessa è un grande insieme di momenti drammatici, di situazioni sgradevoli, di rotture dell’equilibrio iniziale che dànno il via a scelte, azioni, maturazioni, viaggi e miraggi. E non a caso, peraltro, Lev Tolstoj faceva iniziare uno dei suoi romanzi più celebri con la massima: «Le famiglie felici si somigliano tutte, le famiglie infelici lo sono ognuna a modo suo».
Come a dire che l’infelicità ha tanti volti quanti sono gli esseri umani, e che le situazioni familiari scomode, soffocanti, complesse sono tali in maniere che a volte non riusciamo nemmeno a immaginare. Un dato di fatto che abbiamo sotto il naso ogni giorno, in modi più o meno indiretti, e che non è alla base solo di storie come quella di Anna Karenina, ma anche di pubblicazioni ben più recenti, fra cui per esempio mi è venuta in mente la raccolta di racconti La vita altrove di Guadalupe Nettel.
Pubblicata pochi giorni fa da La Nuova Frontiera, nella traduzione di Federica Niola, l’opera ci mette infatti di fronte a otto scenari ipotetici, otto invenzioni letterarie in cui le relazioni, le paure e il pericolo creano un concentrato di tensioni, di aspettative e di sconcerto. Filo conduttore di queste dimensioni a metà fra l’orrido e il surreale è proprio l’ambientazione “familiare”, il contesto intimo e ben delimitato in cui si sviluppano i fatti più disparati.
In verità, fra lo zio della protagonista de L’imprinting e il marito della voce narrante de Il torpore non ci sono collegamenti diretti: sono a sé stanti i due figli della coppia di Giocare col fuoco e il dubbio sulla casa da affittare a Barcellona da parte degli sposi de La vita altrove, per citare alcuni dei racconti forse meglio riusciti del volume.
Eppure, tutti ci accompagnano in labirinti in cui i problemi si accavallano e le angosce vanno di pari passo con il futuro, dandoci una riprova dell’intuizione di Tolstoj, poi ripresa a suo modo da Tenco, per la quale non c’è molto da dire su una gioia che ci trova forse tutti uguali di fronte all’entusiasmo, mentre storie sempre nuove, sconvolgenti e conturbanti si trovano fin sotto lo zerbino di una porta, se c’è una qualche infelicità a fare capolino tra le pagine, specie se tra persone imparentate fra di loro.
Ed ecco perché La vita altrove è un testo che con il suo stile elegante e oscuro ci segna, anzi, ci consegna una presa di coscienza importante, svelandoci lo spessore e la difficoltà del vivere in mezzo agli altri, come testimoniano già queste poche righe tratte dalla prima, pregnante storia del libro: «Ho sempre trovato strana la familiarità che si instaura con uno sconosciuto quando veniamo a sapere che è un nostro parente. Sono sicura che non c’entri con l’affinità immediata, bensì con qualcosa di artificiale come la cultura, una lealtà convenzionale nei confronti del clan o, come dicono alcuni, del cognome»…