A metà tra la riva e l’isolamento del mare, tra la gioia di vederli e lo sforzo di raggiungerli, immagine perfetta della Sicilia. Gli iconici scogli del borgo marinaro da sempre catturano la nostra attenzione e ci ricordano chi siamo. Con le fragilità e i desideri che ci contraddistinguono

Certi luoghi, in Sicilia, possiedono un magnetismo peculiare. Non è soltanto una questione di bellezza paesaggistica, giacché l’intera isola, per i motivi più vari, potrebbe a buon titolo detenere una patente di merito in questo senso. Si tratta, piuttosto, di uno spirito sublime e tangibile, che aleggia su di essi con la flemma dell’eternità e l’impeto travolgente della sorpresa. Luoghi come Aci Trezza, con i suoi inconfondibili e iconici faraglioni, con il suo lungomare dalla frizzante e accogliente brezza che ti sfiora, appaiono sempre nuovi anche quando le suole delle tue scarpe finiscono per consumarsi a furia di esplorarne ogni dettaglio. Perché più i loro segreti si schiudono dinanzi ai tuoi occhi, più il loro legame con la meraviglia complessiva della terra che li ospita e la connessione con la nostra anima di siciliani si fa evidente. E proprio da quegli imponenti e svettanti faraglioni si dipartono verità antiche ma estremamente attuali. I significati più autentici della nostra esistenza da isolani.

Fa effetto pensare che, tra finzione e realtà, ai piedi di quegli scogli, quasi divinità silenziosamente totemiche, generazioni di pescatori abbiano stretto una simbiosi incrollabile con il mare. Immergendovisi e confondendovisi, con lacrime di gioia per aver ottenuto il nutrimento di un altro giorno e sangue di tempesta di morti consegnati alle onde come salati e necessari sacrifici per ingraziarsi il favore della natura. In quelle acque, a metà tra sacro e profano, il destino della Sicilia continua ancora oggi a prendere forma, scontrandosi con le sue ineludibili fragilità, sfidando intemperie e rovinose cadute. In mezzo allo scintillare del mare, o alle sue sfumature grigie che riflettono le nuvole più dense, i faraglioni incarnano con miracolosa pertinenza le declinazioni più sentite della Sicilitudine: si distanziano dalla riva quel tanto che basta per richiedere l’aiuto di un’imbarcazione o lo sforzo di una nuotata, ma non tanto da invitare a desistere i curiosi e i coraggiosi che li inseguono; circondati solo da acqua, sono metafora perfetta della Sicilia che li ospita e li contempla. E c’è di più: cosa spinge i turisti accorsi nel piccolo borgo marinaro a tentare la loro scalata? Solo il brivido di un tuffo da grandi altezze o un ulteriore, inconsapevole effetto collaterale della contagiosa sicilianità? È una vera proporzione matematica, quella che sottende a questa dinamica: come la Sicilia non è che una parte limitata di un mondo sconfinato eppure ne costituisce il cuore insostituibile, allo stesso modo la cima di quegli scogli frastagliati dona, per qualche istante, l’illusione di abbracciare l’intera realtà con i propri occhi, l’ebbrezza di tenere in mano una rara lente d’ingrandimento sui fatti e sulle ragioni di ciò che ci circonda. Ogni nostro scrittore, in senso figurato, è salito su uno di quei faraglioni, raccontando l’universale dopo aver tastato il particolare. E noi, emuli meno avveduti, seguiamo le loro orme, convinti che il mondo non abbia segreti se visto da qui.

Quei faraglioni sono, dunque, una corsa e una scalata. Catalizzatori di un movimento incessante e turbinoso: avanti e indietro, su e giù. Ci affanniamo per raggiungerli nel loro speciale isolamento e quando vi siamo giunti ci aggrappiamo a loro con fatica e fiducia. È il sogno di agguantare l’orizzonte senza perdere di vista la riva, di guardare finalmente dall’alto ricordandoci la base da cui tutto è cominciato per combattere le vertigini di ciò che non è abitudine. Attirati e in un certo senso spaventati, curiosi e custodi di una grandezza che forse non capiremo mai fino in fondo, ma di cui, in fin dei conti, abbiamo bisogno come sostegno. Esiste qualcosa più siciliano di questo?

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